Lo chiamavano Jeeg Robot

lo chiamavano jeeg robotVoto 4.1

Quanto è appagante riconoscere l’epica dei cartoni animati in questo cinema italiano che produce ottimi lavori: Claudio Santamaria, alias Jeeg Robot e Alessia (Ilenia Pastorelli) si esprimono meravigliosamente nei rispettivi ruoli di eroe e principessa.
Nulla a che fare con la Marvel, o meglio nulla che abbia a che fare con la consapevolezza dei supereroi che circondano il grande schermo; un disgraziato qualsiasi, non palestrato, per niente bello e soprattutto senza amici si trova dotato di forza incredibile dopo un bagno nel Tevere. Lasciamo stare l’opinione plausibile che ciò possa accadere realmente, ma cosa pensate farebbe se ciò avvenisse al giorno d’oggi? Naturalmente il malcapitato va a rubare un bancomat e qui la finzione prende il sopravvento lasciandoci godere un film che corre velocissimo e senza intoppi.
Ci sono i cliché ed è giusto che ci siano perché la serie che dà il nome al film è espressamente chiamata come riferimento ed il regista Gabriele Mainetti traspone una storia che oramai non appartiene alla televisione del 2000, nella Roma tinteggiata di fumi scuri che ci appartiene, con un tocco di Gomorra e con l’interpretazione veramente inaspettata dei drammi psicologici umani che ancora non capiamo.
Eppure ancora non ho detto quello che preferisco: la nota positiva, il clima che dopo aver raggiunto il suo apice tetro in cui come veri bambini piangiamo il nostro eroe, si rialza vorticosamente per brillare nell’ottimismo finale di ogni puntata. E parlo di puntata non a caso perché da spettatori quasi desideriamo che il film sia interrotto per continuare una prossima volta a seguire le avventure italianissime di Jeeg Robot.
Effetti speciali dosati al minimo e movimenti seguiti passo passo danno ancor di più il senso realistico di una vicenda impossibile. Sedetevi e tornate ai vostri pomeriggi fantastici.

Perfetti Sconosciuti

perfetti sconosciutiVoto 4.0

Non è necessario un grande budget per avere un risultato ottimo: un’idea originale che crei conflitti a non finire e soprattutto in linea coi tempi dato che vuole mostrare un pezzetto di noi; attori bravi; Giuseppe Battiston (sì è una categoria a parte perché della sua voce ci si innamora e della sua cadenza possiamo solo ammirare la musicalità).
La base è la semplice decisione di mettere i propri cellulari allo scoperto durante una cena scherzosa tra coppie amiche e come si può prevedere lo svolgimento sarà perlomeno comico. La bravura di tutti sta nel creare tensione al giusto livello: si ride molto e poi la verità ci fa zittire e un po’ stare male, cioè gli ingredienti perfetti di una vera e propria satira dei nostri giorni. Badate però al fatto che non ci sia alcuna accusa al mezzo, al telefono, la colpa non è nemmeno degli uomini in generale o della società tutta; solo di quelle persone lì, ritratte in una serata che guarda le loro vite per zoom casuali.
Edoardo Leo marpione, Anna Foglietta sincera ma strana, che ci porta disagio, Alba Rohrwacher di troppo per voce e profondità che sono suoi caratteri ineliminabili, Marco Giallini di una pacatezza a cui vorremmo aspirare,
Valerio Mastandrea reale nella sua mediocrità ed infine la cinica Kasia Smutniak: l’ideatrice del giogo che emerge per la propria consapevolezza. Null’altro da dire perché siamo più vicini ad uno stile teatrale dove non contano le riprese ma la capacità del regista Paolo Genovese di dirigere il corpo unico lungo il filo bello e lineare della sua trama. Uno sguardo profondamente interessato alla realtà senza pregiudizi e malizia, quelli li creano i personaggi, che ci fa ridere e pensare; usciamo sereni e consapevoli dell’audacia di quella domanda posta dall’inizio riguardo la quantità di vita che mettiamo dentro un oggetto che forse ci rappresenta più di quanto sappiamo far credere.

Moonrise Kingdom

Moonrise Kingdom
Voto 4.2
Crescendo, crescendo, crescendo… potreste cadere dal campanile. Qui potrebbe chiudersi la mia recensione perché non credo serva aggiungere altro: fidatevi la commedia di Wes Anderson non vi fa stare mai fermi, accompagna il vostro respiro, le vostre risate e le vostre apprensioni con mano leggera, distaccata ed incredibilmente creativa.
Colori pastello ovunque, un’idea originale, uno sviluppo costante tra conflitto e fuga verso un punto preciso che si vede all’orizzonte ma che non può essere reale; del resto come non può esserlo tutto ciò che si vede nel film. Eppure come nelle fiabe più belle la magia sta solo nel mezzo del racconto, prima e dopo di esso la verità, cupa e triste, torna a bussare incessante, non cattiva, ma pur sempre presente.
Una coppia di bambini fugge dal campo scout che rappresenta la vita fatta di regole e bruttezze propria degli adulti; lui da vero uomo la prende per mano e come nelle utopie fatte bene il loro rapporto è alla pari e nel silenzio della voce il frastuono della musica d’amore vince le avversità, per un breve periodo. Quanta bellezza nel trovare un’anima che davvero sia compagna del meravigliarsi insieme del mondo. Il regista ce lo dice in tutte le salse: torniamo bambini perché è possibile e necessario altrimenti perderemo il gusto e la gioia del vivere. Certo possiamo essere adulti in più modi ed ognuno ha il suo grado di attaccamento e distaccamento dall’amore autentico; ma sempre la gioventù insegna la collaborazione, l’aiuto del simile, il corretto relazionarsi al mondo e cosa più importante di tutte: la volontà e tenacia di perseguire la propria realizzazione.
Ora le mie parole sono sproporzionate rispetto al linguaggio del film o meglio: i dialoghi ed il primo livello di Moonrise Kingdom sono semplici e lineari mentre il vero linguaggio filmico, cioé le inquadrature e le intenzioni di Anderson, sono altrettanto ricercate e complesse. Un esempio su tutti, tralasciando la psicologia della solitudine, si trova spulciando chi più ne sa di me (Fonte) riguardo la colonna sonora: l’overture è un brano didattico degli anni Sessanta in cui si presentano i vari elementi dell’orchestra i quali si uniscono nella fuga, proprio come i due piccoli amanti Sam (Jared Gildman) e Suzy (Kara Hayward).

The Revenant- Redivivo

The RevenantVoto 4.5
Finalmente DiCaprio non è da solo e insieme a lui lavora un team che ha dato la propria natura, il proprio istinto umano, per rendere con crudezza quel campo di conquiste che fu l’America del Nord.
Strano ma Inárritu è fedele alla Storia e ci sono con i barbari inglesi anche quelli francesi, ci sono le lotte interne tra gli indigeni e la brutalità di tutti: ecco accomuna le parti in lotta l’istinto, che sia vendicativo, patriottico (mi riferisco agli indiani) o bramoso di denaro.
Glass (Leonardo DiCaprio) è la guida della spedizione che tra le foreste del Missouri è in cerca di pelli per conto dell’esercito inglese, ma dal suo passato arriva qualcosa di meticcio e all’inizio del film, contemporaneamente al sangue, arrivano dissidi e morti. I fucili si caricano ancora con lo stoppino e per questo arco e frecce, pugnali e sangue freddo, sono armi più che valide. Non esagero la presenza della violenza perché c’è, è nella nostra natura ed il regista la mostra tanto quanto la Natura. Immensi paesaggi, ghiaccio, neve, fuoco, acqua, terra; gli elementi ci sono e rappresentano in modo semplice il Mondo, il freddo, il calore, l’ingegno, la purezza, la fertilità. Lunghi piani sequenza, luce vera, la musica è maestosa quando c’è movimento o passaggio da una scena all’altra mentre il silenzio è sovrano se il soggetto è statico; non solo ascoltiamo la solitudine ma sentiamo anche il gelo, l’istinto di sopravvivenza e per far questo la macchina da presa si mostra: è come se ci fosse la presenza dell’operatore che guarda da vicino i personaggi, li segue, li “spinge”.
Quest’opera d’arte va vista, vi si trova il grande Cinema risultato da un grande Ideale e messo in atto con grande Stile. Un momento addirittura, se guardate la semplice storia in quanto espressione di un regista, vi entra nelle ossa: proverete dei brividi perché finalmente toccherete con mano l’abilità artistica dell’uomo, la sua capacità di descrivere l’inesistente con piccole immagini ritagliate dalla realtà. Un respiro per me porta DiCaprio nell’Olimpo, tirato dalla mano divina di Inárritu che rompe il vetro che separa la vita dalla non-vita.

Hiroshìma mon amour

Hiroshìma mon amour
Voto 4.4
È tutta poesia l’inizio di questo tragico racconto ambientato nella famosa Hiroshìma; basta la prima mezz’ora di labile narrazione documentaristica per darci l’idea del tormento che può aver provocato la bomba atomica vista dal 1959 e in questo modo Alain Resnais firma il proprio contributo alla Nouvelle Vague.
Nell’abbraccio passionale di una storia tra lei (Emmanuelle Riva), un’attrice francese impegnata in Giappone per le riprese di un film contro la guerra e lui (Eiji Okada), politico sincero e di forte senso umano, si viene portati ad ascoltare il dramma del popolo nipponico dal punto di vista di una donna che sente profondamente la colpa del mondo. Capire cosa lega queste coscienze alla storia reale sembra difficile dato il simbolismo iniziale ma mentre la giovane attrice si prepara al ritorno in Europa, l’amore istintivo del protagonista giapponese la trattiene e ciò che ne risulta porta lo spettatore in un altro scabroso volto della seconda guerra mondiale: in tenera età durante quegli anni bui, sulle rive di un piccolo fiume tra le campagne di un insignificante paesino francese, lei si era innamorata di un nemico occupante. Naturalmente l’odio della popolazione non le lascia scampo ed è terribile vedere quanto sia deleteria l’opinione pubblica in un simile contesto.
I due protagonisti si inseguono: un po’ negli anni ed un po’ nel presente di una nazione che si dà da fare per riprendersi. Ma quanto è bello lo sguardo singhiozzato del regista e come si muove efficacemente la sua mano per inseguire l’ansia di vita significativa di due avanzi di guerra che si sono incontrati di nuovo o che forse non si sono mai conosciuti. Meraviglioso.

Scene da un matrimonio

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Voto: 3.9
Non facile da seguire un film che è teatro dell’ipocrisia; non quella inventata della trama, ma la nostra personale ed inesorabile contraddizione quotidiana. Quando credi spettatore di essere più falso? Ingmar Bergman risponde e rivela le menzogne di una storia d’amore che sembra essere idilliaca, che diventa disgustosa e che si conclude realisticamente.
I due protagonisti Marianne (Liv Ullmann) e Johann (Erland Josephsonn) si vedono nel primo atto come esempio di amorevoli confidenti: vengono intervistati, parlano di sé e delle proprie storie che per caso si incrociano dopo una buona dose di tristezza e sofferenze. Quando nella scena successiva davanti ai protagonisti si svolge una furiosa lite che rappresenta la meschinità del matrimonio, l’invidia ed il ribrezzo per quella coppia non scalfita da alcunché salgono e si concretizzano per diventare noia e repulsione. É la sincerità che salva Johann e Marianne dalla catastrofe del divorzio e persino quando lei mostra le prime perplessità su quella situazione il loro rapporto si salda; ancora quando lui sembra cedere alla tentazione di una vecchia collega la forza dell’unione resta integra.
Come non meravigliarsi poi quando il terzo atto ci coglie di sorpresa e allarga il quadro ad estremi tanto innaturali da donarci la confortevole sensazione di essere tornati alla realtà? Le inquadrature sono per lo più fisse e gli spazi di scena angusti, sebbene la piccolezza degli uomini faccia sempre spavento; gli interni non cambiano e davvero le riprese si svolgono in circa cinque stanze che alla lunga possono portare al distacco ma che vengono perfettamente e con tempestività gestite e cambiate.
La morale può essere solo negativa e l’introspezione a cui lo spettatore viene invitato è difficile; oserei sconsigliare la visione del film agli amanti, soprattutto quelli che hanno un’alta considerazione della propria storia, perché questa pellicola non esalta la passione: bensì la minimizza sotto ogni aspetto, portando il terrore nei cuori di chi si sente al sicuro tra le braccia amorevoli del proprio compagno o tra quelle sicure dell’amante.
Marianne esce vittoriosa ma destabilizzata nel profondo, Johann non vorremmo guardarlo negli occhi anche se infine non possiamo che biasimare quella infima natura umana.

Sciopero!

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Voto 3.6
Il primo lungometraggio del regista de La corazzata Potemkin, sono già evidenti le tecniche che lo rendono l’esponente più importante del cinema russo degli anni ’20.
Non ci sono protagonisti, si racconta la lotta di classe e si esalta la rivoluzione. Il motivo dello sciopero organizzato dagli operai di una fabbrica è il suicidio di un loro compagno a causa di un’ingiusta accusa di furto.
La gerarchia dirigente è rappresentata attraverso una serie di telefonate che mostrano in sequenza il lusso sempre maggiore delle teste capitaliste, per capirlo è sufficiente un poster americano sulla porta dell’ufficio.
La trama si sviluppa attorno al gruppo di rivolta che senza lavoro vive con difficoltà, ed alla reazione degli imprenditori che non intendono firmare le proposte avanzate ma cercano subdolamente di sedare gli attivisti sovietici.
La scena che rappresenta in questo film tutta la la corrente del montaggio intellettuale sperimentato a partire da quegli anni in Russia, è quella in cui la polizia a cavallo fa una retata nel quartiere operaio della città: per creare un’inquadratura cinematografica, che non può esistere nella realtà, Ėjzenštejn accosta le riprese del massacro, a quelle apparentemente insensate di una vacca uccisa e squartata. In questo modo è stata creata a partire da due inquadrature, una terza ripresa che prende vita solo in sede di montaggio, nel momento in cui si proietta la pellicola, nella mente dello spettatore.
Da questo modo di fare cinema, in questo caso utilizzato per fini politici, il contributo dato all’arte filmica è immenso e per nulla subordinato all’intento.

Metropolis

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Voto 4.7
Metropolis: da qui nacque la fantascienza cinematografica. Negli ultimi anni dell’espressionismo tedesco, 1927, Fritz Lang dirige questo colossal avvenieristico utilizzando tecniche di ripresa ed effetti di montaggio in modo tale da narrare un’umanità sconvolta.
In un ipotetico anno 2026, una macchina è il centro della città di Metropolis, fatta solo di luci e grattacieli. La divisione tra operai e classe dirigente è netta: i primi nel sottosuolo, i secondi ai piani più alti. Jhoann Fredersen (Alfred Abel) il figlio dello chairman, viene bruscamente fatto uscire dalla sua dimora idilliaca grazie a Maria (Brigitte Helm), angelica donna che in realtà è la profeta deglo operai: colei che dopo le sfiancanti ore di lavoro offerte come sacrificio alla macchina, dona agli uomini una speranza.
Quando Jhoann visita i bassifondi, il regista esalta la scenografia delineata e marcata (razionalista) componendo abilmente l’inquadratura al servizio dell’idea di rigore che assoggetta gli indivdui. Inoltre tra dissolvenze, sovraimpressioni e schermo diviso, l’opposto senso di disorientamento che deriva dall’oppressione, viene splendidamente reso unicamete con le immagini; come la scena significativa in cui la macchina Moloch (Cabiria) ingoia i suoi operai.
In fondo la storia è drammatica: Jhoann è innamorato di Maria ed odia con lei lo sfruttamento delle persone, il padre Freder (Gustav Frohlich) e lo scienziato Rotwang (Rudolf Klein-Rogge) amano Lei, la moglie del primo morta mentre dava alla luce Jhoann. Rotwang tenta di dare vita ad un robot dandole le sembianze di Maria, la quale oltre a diventare motivo di conflitto tra i tre uomini, incita le masse alla rivoluzione e l’aristocrazia alla lussuria.
Pur essendo un film muto, Lang riesce in modo inaspettato per il pubblico odierno, a sviluppare una trama talmente complessa solo grazie all’immagine. Ogni inquadratura esprime sia azione sia espressione; la recitazione accentuata marca ancora di più il volto fermo degli attori, ed ogni loro gesto plateale è funzionale per raccontare la vita nella città di Metropolis.

L’inhumaine- Futurismo

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Voto 3.4
Impressionismo francese degli anni ’20, cioè un’avanguardia artistica ingloba anche il cinema, diventato oramai anch’esso un’arte a tutti gli effetti, quindi discussa a livello teorica. Il grande cinema hollywoodiano degli studios, dai grandi budget, che ha dilagato oltreoceano, in Europa non si può fare; quindi gli intellettuali rinnovano il modo di fare cinema.
Marcel L’Herbier è uno dei maggiori esponenti e nel 1924 gira questo film che racchiude i caratteri dell’impressionismo: scenografie futuristiche che non esprimono alcuna emozione, solo attestano un gusto architettonico che vuole appunto impressionare. Lo stesso vale per le tecniche di ripresa che vengono innovate: filtri, messe a fuoco, effetti ottici, e per il montaggio che viene sfruttato sempre di più: sovraimpressioni, ritmi accelerati, schermo diviso; tutto questo per esprimere le emozioni dei personaggi attraverso l’immagine.
Con l’idea di photogénie, cioè con la convinzione che la cinepresa abbia la capacità magica di esprimere con l’immagine qualcosa che l’oggetto ripreso non aveva in sé, L’Herbier e gli impressionisti mettono da parte la narrazione e la sfruttano solo per trarne flashback, allucinazioni, ricordi, stati psicologici anormali insomma che permettano di avere un’emozione da proiettare sullo schermo ed impressionare.
L’Inhumaine è la storia di un uomo (Jaque Catelain) innamorato della star Claire (Georgette Leblanc), definita inumana per la sua indifferenza verso il resto del mondo, egli si fa credere morto per arrivare a lei e tra gelosie, apparenti resurrezioni, allucinazioni e strane macchine futuristiche, il lieto fine salva una pellicola caratteristica del movimento artistico di cui fa parte.
Mi sono sovvermato sul contesto storico per trovare giustificazione ad una colonna sonora che rappresenta il futurismo e che per questo non sono in grado di apprezzare, a tal punto che questa rende l’intero film un’agonia acustica.

Intolerance

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Voto 4.2
David Wark Griffith fu uno dei maggiori registi del cinema delle origini ed Intolerance nel 1916 fu il suo secondo colossal.
La trama è divisa in quattro racconti paralleli lungo la storia dell’uomo accomunati dal tema dell’intolleranza: una giovane babilonese (Constance Talmadge) che non vuole sottostare ai costumi della sua città, la vita di Gesù, la repressione degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo del 1572 in Francia ed una vicenda del presente ambientata tra la malavita americana ed i crescenti disagi della classe operaia.
L’opera mastodontica ancora oggi si può definire un film epico, prima di tutto per la spettacolarizzazione della scenografia. Oltre a costumi d’epoca e centinaia di comparse, il set intero è riproduzione a grandezza reale delle mura della città di Babilonia, della reggia dei regnanti francesi, di inseguimenti sia a cavallo sia con macchine veloci come treni; anche se tutto ciò viene ripreso dal cinema italiano di cui è esempio Cabiria.
L’innovazione maggiore di Griffith, sta nell’aver reso un film, facilmente intellegibile dal pubblico: cioè solo da quegli anni il cinema si può chiamare istituzionalizzato e la forma narrativa aveva preso il sopravvento sui documentari o sui film comici, o sui film d’attrazione o sulle vedute di paesaggi lontani. Mancava a questa forma narrativa una serie di espedienti tecnici e di linguaggio filmico che riuscissero a far comprendere nel modo più semplice ed immediato possibile al pubblico, lo sviluppo della trama, il significato di una certa inquadratura, la psicologia dei personaggi, elementi che oggi lo spettatore ritiene scontati ed assodati ma che nel 1916 non lo erano.
Griffith ovviò in modo talmente brillante a queste difficoltà comunicative, che addirittura riuscì ad introdurre forti elementi di suspance nella sua opera. Nel corso della pellicola per passare da un racconto all’altro, egli usa le didascalie preannunciando il salto temporale oppure la suggestiva immagine di una donna (Lillian Gish, alla quale Truffaut dedicò Effetto Notte) mentre dondola una culla, ma verso la conclusione, dopo tre ore di dettagliata e precisa costruzione dell’attesa, si passa dalla distruzione di Babilonia, alla crocifissione di Cristo, alla strage di una cittadina, ad una sentenza di morte, in montaggio alternato: cioè staccando (passando) da un’immagine in un dato luogo in un dato tempo con un dato personaggio, ad un’altra diversa, enfatizzando così le aspettative del pubblico.
Griffith con Intolerance portò il cinema di finzione narrativo a livelli che hanno permesso agli altri registi di usare l’arte cinematografica al massimo delle possibilità, ed usando sistematicamente il montaggio alternato ha dato agli spettatori il piacere sempre maggiore di godere del cinema.

Cabiria

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Voto 4.2
1914, il cinema è stato brevettato da circa vent’anni e tra le varie forme che stava assumendo, una si è istituzionalizzata: quella narrativa. Cabiria (Lidia Quaranta) è una bambina romana che dopo un’eruzione dell’Etna finisce nelle mani dei Cartaginesi del terzo secolo A.C., pochi anni prima che Annibale valicasse le Alpi.
Il giudizio su questo film non può essere che storico, infatti ad inizio Novecento, l’arte cinematografica stava solo iniziando a farsi strada; addirittura come si nota dalla copertina, il nome di Gabriele D’Annunzio, che scrive lunghe ed infunzionali didascalie (le scritte usate nell’era del muto), è ben più evidente di quello del regista Giovanni Pastrone, rispecchiando come quel ruolo non avesse ancora assunto il valore che conquistò solo con la Nouvelle Vague negli anni ’50.
Tra le caratteristiche che danno importanza a questa pellicola, c’è la caratterizzazione evidente dei personaggi: prima di “Cabiria” Maciste (Bartolomeo Pagano), il mitico uomo forzuto o gigante buono cresciuto a pane e pugni, non esisteva; la figura della Diva, oggi Hollywoodiana, nacque in Italia e la principessa Sofonisba (Italia Almirante Mazzini) ne rappresenta gli esordi con la sua passione amorosa, la bellezza inaudita, i turbamenti interiori ed il richiamo alla sorte della Didone Virgiliana.
Da qui il cinema intero prende ispirazione, anche solo di semplicità narrativa: le didascalie, seppur poetiche, velocizzano la trama e permettono al regista di usare inquadrature teatrali, o meglio melodrammatiche, sfarzose e maestose che stupiscono lo spettatore.
La comicità è un elemento fondamentale di questi personaggi storici ma fortemente umanizzati, la scenografia costituisce parte ideologica del film, la storia fonda la sceneggiatura e la bellezza esteriore è intento stesso dell’arte. Purtroppo ai nostri giorni non possiamo apprezzare davvero quanto fosse innovativa quest’opera negli anni in cui venne proiettata, ma resta comunque un pezzo di storia del cinema a cui bisogna riferirsi.

Effetto Notte

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Voto 4.1
Questo è il backstage di “Vi presento Pamèla”, esatto proprio un dietro le quinte, ma il film non esiste. François Truffaut vinse l’Oscar come miglior film straniero nel 1973 per questa pellicola che narra la storia della produzione di una sceneggiatura che in realtà non viene mai girata.
La trama del livello di racconto più basso, parla di un uomo (Jean-Pierre Leaud) che presenta la moglie Pamela (Jacqueline Bisset) ai suoi genitori; il padre (Jean-Pierre Aumont) si innamora della nuora ed insieme scappano.
Oltre all’intrigo che basterebbe già per attirare l’attenzione dello spettatore, il regista francese rappresenta magnificamente la nouvelle vague di cui è parte: il movimento di nuova era cinematografica partito a fine anni ’50. Carattere fondamentale della rivoluzione è tra gli altri, far intendere come il cinema sia una parte più che rilevante della vita interiore di un uomo, a tal punto che uno degli attori, durante le pause tra una ripresa e l’altra, pretende di usare il tempo libero per andare a guardare nuovi film in sala. Truffaut che interpreta Ferrand, il cineasta di “Pamela”, sogna addirittura il forte desiderio che ha di avere successo, la cinematografia pervade così profondamente la sua vita privata che non resta altro.
Passioni tra gli attori, svago interno alla troupe, rivalità e difficoltà tra finanziatori e produttori, dive hollywoodiane riportate alla retta via dopo crisi nervose, dive teatrali accompagnate dal tempo a finr carriera, divi eterni seduttori che si scoprono altro. Truffaut regista esterno esprime, e riesce splendidamente in questo: a svelare il dietro le quinte del mondo del cinema riconoscendogli le difficoltà che si porta dietro, pur lasciando intaccata l’aura di magia che gli appartiene e che anzi viene esaltata in questo film, che prende il titolo dal trucco usato per girare di giorno una scena alla quale con un filtro sulla camera verrà dato: l’effetto notte.

Nella Casa

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Voto 3.4
Quanta fantasia ed ispirazione nell’aprire la trama di questo film di François Ozon; purtroppo il problema reale dell’opera è lo stesso del protagonista Claude (Ernst Umhauer) nella finzione cinematografica: non riesce a trovare un finale.
Col pretesto di un tema in classe, il professore di Letteratura Germain (Fabrice Luchini) scopre nel ragazzo il talento della scrittura che non ha mai avuto e tenta di incanalarlo verso un vero romanzo.
Claude però prende ispirazione dai propri desideri ed inizia così la storia nella storia: c’è una famiglia medio-borghese fatta di un buon figlio a cui servono ripetizioni di matematica, un padre amabile ma frustrato dal lavoro dipendente ed Esther (Emmanuelle Seigner), la madre spenta, senza sogni, di cui però ci si innamora alla prima vista. Inoltre la moglie (Kristin Scott Thomas) del professore è curatrice di un’atelier d’arte contemporanea, senza figli, che rischia di perdere il lavoro. Già così districare il tutto è difficile, aggiungendo gli interventi di Germain durante il romanzo che tenta di correggere e migliorare lo scritto di Claude, risulta un film in cui la mano ferma, descrittiva e dettagliata di Ozon si perde forse nella sceneggiatura. Il mio voto forse è più per il fatto che sia una commedia piacevolissima piuttosto che per errori evidenti della troupe in azione.

Gerry

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Voto 4.1
Chissà se Gus Van Sant girando questo primo capitolo della sua poetica sulla giovinezza, avesse avuto in mente il Leopardi dell’Infinito.
Una sequenza di campi larghi, sterminate vedute della Death Valley, camminate lunghe che portano alla morte. I due protagonisti di nome Gerry (Matt Demon e Casey Affleck), si perdono all’inizio del film nel deserto americano dopo alcuni minuti in macchina. Richiamando “Shining” di Kubrick, il regista ci porta alla ricerca della psiche umana, non oltre: solo la ricerca dell’io interiore attraverso la sfida con una Natura arida, lunare indifferente. Pochi dialoghi e sequenze nette, vediamo i due dispersi come a teatro con tempi reali; questo è un avvertimento perché se in questo lavoro di Van Sant non si coglie la poesia nel narrare due giovani che si perdono negi spazi al di là dell’infinito, allora si crederà questo film noioso. La noia forse è la colpa dei due Gerry, o almeno di quello che muore, l’altro volle inoltrarsi nella Natura ma ne uscì da solo.

La grande bellezza

la grande bellezza
Voto 4.0
Lento, inesorabile, attraente, costellato di vuoti e di nullità, questo è il destino dell’uomo ma non è il soggetto del film di Paolo Sorrentino. Il regista italiano che vince l’Oscar per il Miglior Film Straniero il 02 Marzo 2014, parla di un uomo, più precisamente di Jap Gambardella, interpretato da Toni Servillo, suo immancabile mezzo espressivo, che in gioventù scrisse un libro sulla donna che per prima gli rubò il cuore, ma che a quanto pare si tenne.
Lo scrittore da quella pubblicazione divenne famoso: Roma intera vuole godere della sua gloria riflessa ed intorno a Jep si costruisce il centro della mondanità, quella fatta di alcool, prestazioni non occasionali a favori, feste, intelligenza depravata, furbizia maligna, feste, finzione, feste, vuoto.
Come descrivere il nulla totale? Sorrentino risolve imponendo dei personaggi secondari deboli di carattere, dipendenti da Jep in tutto e per tutto, tranne l’amico romano interpretato da Carlo Verdone che riesce a fuggire dalla città, sconfitti, disastrati dalla futilità delle loro vite senza scampo.
Servillo attraversa la marea indistinta di animali impauriti sotto il giogo della fama, si immerge nella banalità ma non viene scalfito: supera quel vuoto riempiendolo di freddezza, indifferente occhio critico, voglia di sovvertire un mondo che lo ha avvolto ma che non gli appartiene, di soverchiarlo usando l’unica arma che nella mondanità non ha spazio, la sincerità.
Scene e personaggi apparentemente inspiegabili descrivono il senso di apatia che affligge Roma, ma a differenza di quella Felliniana qui nel nuovo millennio gli uomini la impongono, non ne sono catturati ed affascinati come negli anni ’50; una suora centenaria sconvolge i sensi di colpa dello scrittore che ha perso l’ispirazione, una spogliarellista (Sabrina Ferilli) riacquista la speranza di ascesa sociale, una scrittrice inutile fa i conti con il proprio ruolo che nel mondo non ha.
Il difetto generale purtroppo è riscontrabile nelle aspettative del cast che sono deboli e che solo in parte vengono confutate; Sorrentino è abile nel maneggiare l’intera trama per raccontare forse un solo punto del film: Jep Gambardella, vittima della sua fama ottenuta per amore, sagace ed instancabile osservatore della società, è quasi un Mosè che camminando su Roma discrimina gli onesti e i non, viene travolto per tutta la sua vita da quell’amore, non ne riesce ad uscire, e soccombe senza aria nella propria storia, che è davvero degna di essere stata raccontata.

Paranoid Park

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Voto 3.6
Un giovane skater che uccide un uomo in un momento di noia, elabora il senso di colpa senza scontare punizioni ma scrivendo una lettera di scuse che è l’unica guida sonora attraverso la vicenda. Qui si esaurisce la mia critica negativa: nel soggetto personalmente trovo poco interesse, ma oltre non posso permettermi di commentare Gus Van Sant. La regia si fonda sul punto di vista soggettivo del protagonista Alex (Gabe Nevins); immagini sfuocate, effetti di luce, riprese in 36 mm e in super8, tutti giocati per esprimere il travaglio interiore di un ragazzo che non trova alcun appoggio quando la vita gli chiede delle emozioni.
I genitori stanno divorziando, l’amico (Jake Miller) è in realtà un ennesimo e falso modo di impiegare il tempo che non passa, la ragazza Jennifer (Taylor Momsen) esaspera l’apatia di Alex verso gli altri con la superficialità tipica della cheerleader.
Un detective tenta di smascherare l’omicidio, ma la morte è superiore: sia quella reale, sia quella interiore dello skater. Il film di Van Sant è realtà, senza caratteri strani: egli racconta di un individuo che muore insieme alla persona che uccide, si chiude dentro se stesso e se riesce a farla franca si chiude ancora di più, bruciando magari la lettera colpevole.

Restless – L’amore che resta

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Voto 4.1
Gus Van Sant rischia di non sbagliare neanche un’inquadratura nonostante tratti in questo film i temi della morte, dell’adolescenza, dell’essere orfani, dell’avere una vita segnata dalla diagnosi di un tumore maligno che concede solo tre mesi di vita.
Enoch (Henry Hopper) ed Annabelle (Mia Wasikowska) si incontrano ad un funerale, entrambi frequentano questo tipo di eventi con una leggerezza che stravolge lo spettatore. Ecco invece che la maestria del regista trova il luogo d’intervento: le immagini sono girate con una tale semplicità e linearità che ogni difficoltà morale della trama viene smorzata. I colori tenui, la simpatia di un amico giapponese (Ryo Kase) immaginaro suicidatosi nella seconda Guerra Mondiale, la forza con cui Annabelle affronta il suo tumore, rendono questa pesantissima storia di una godibilità altissima.
In ogni caso una giovane ragazza innamorata muore. Lei tenta di spiegare a chi le sta intorno che la morte è una semplice realtà Darwiniana in cui il più debole cade, nonostante lei ami ogni aspetto della vita. Purtroppo Enoch ha già perso i genitori, è morto per tre minuti durante il coma in occasione dell’incidente, quindi non può assolutamente accettare che un’altra persona lo lasci da solo.
Grazie però all’amico Hiroshi che lo accompagna insieme ad Annabelle verso l’accettazione del ciclo naturale della vita, ma soprattutto grazie all’abilissima mano di Van Sant che delinea la storia con un melodioso sottofondo felice e con l’intento profondo di raccontare la distanza che può esserci nell’affrontare la morte tra noi uomini stereotipati ed i suoi protagonisti anormali.

Prigionieri dell’oceano

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Voto 4.1
Nel 1944, dieci anni prima de “La Finestra sul Cortile”, Alfred Hitchcock sperimentava un metodo nuovo, forse un suo semplice sfizio: quello di girare un intero film in un unico luogo. Non è tanto una guerra per tornare all’unità di luogo e di tempo aristoteliche, quanto la volontà di capire cosa possano pensarne gli spettatori della “settima arte” del XX secolo.
I protagonisti sono gli affondati di un transatlantico americano, e rievocando la causa che fece intervenire gli USA nella II Guerra Mondiale, che si trovano su una scialuppa di salvataggio in mezzo al mare e devono riuscire a sopravvivere, contro la Natura e contro loro stessi.
Hitchcock è sempre stato famoso per la sua pacata, calma, ed incrollabile imparzialità, ma negli anni della propaganda interventista americana doveva fare qualcosa: perciò su questa scialuppa sale un tedesco, l’unico in grado di comandare la piccola nave di fortuna, osteggiato da tutti ma graziato così dalla sorte; il regista lo farà morire alla fine per dare il suo contributo alla storia. Può sembrare una pellicola noiosa, di fatto l’ideale intenzione di creare suspance da un unico luogo non sarà ai livelli successivi, ma il voto dà importanza all’inventiva di quel primo Hitchcock d’oltreoceano, alla sua scommessa di farsi odiare dal pubblico per aver esaltato un tedesco e le sue doti da navigatore (che avevano portato la Germania nazista al dominio sull’Europa).
A parte questo contesto creato dalla critica, il lavoro in sé parla di tutt’altro: la trama è incentrata sulla giornalista che tiene i superstiti uniti, sana i litigi, e nel suo piccolo racconta la decadenza morale della vita pubblica e mondana, già in quegli anni vista negativamente, poco prima della “bella vita felliniana”. Non scrivo della trama perché non è un film da guardare se non si hanno intenzioni di analisi cinematografica, cioè agli addetti al settore questo capolavoro Hitchcockiano sembrerà il prequel dei suoi anni migliori, e già qui si prefigura la creatività del genio a cui solo il tempo darà giustizia.

The Wolf of Wall Street

wolf
Voto 4.0
Se non ci fosse stato Leonardo Di Caprio (Jordan Belfort) questo film, non esagero, lo avrei dato come sequel dell’ultimo American Pie. Di fatto il candidato all’Oscar Di Caprio c’è, ed in questo modo il regista Martin Scorsese andrà con lui alle prossime premiazioni del 02 Marzo.
La storia è quella tratta dal romanzo autobiografico del protagonista, che da semplice broker di Wall Street, arriva a fondare una società che si dedica al riciclaggio di cattive azioni in borsa ed inganna in poche parole gli americani impegnati in finanza. Già la trama spingerebbe a pensare che questo film possa interessare ai soli spettatori d’oltreoceano, dato che fino a qualche anno fa l’Europa comune non si era mai interessata dell’andamento del Mercato azionario. Ma qui sta l’abilità di Scorsese: dipinge nel modo più orrendo possibile la società che ha di fronte. Le scene arrivano a tratti ad assomigliare ad una festa privata di miliardari e relative sgualdrine in mezzo all’oceano; Di Caprio insieme ai soldi guadagnati aumenta i livelli di droghe, alcool e perversioni in corpo. Nemmeno la finta super-bellezza di Margot Robbie (è la seconda moglie Naomi Lapaglia) riuscirà a soddisfare le spaventose manie di Jordan, anche se è proprio qui che il regista inserisce il punto debole del protagonista, ma anche del suo film: nell’ultima mezz’ora di una pellicola che dura 180 minuti, che Di Caprio appunto era riuscito a tenere saldi e forti, viene mostrato il lato umano e sofferente di un criminale che cerca redenzione. Certo Scorsese non perdona nulla a questa sporca civiltà fatta di sesso e denaro, ma tanto valeva non mostrare nemmeno le false scuse di Belfort.
Nel complesso per le contraddizioni che vengono create e distrutte, il film merita uno sguardo critico positivo per la giusta analisi della società, soprattutto grazie ancora alla brillante interpretazione di Di Caprio; anche se probabilmente è piaciuto di più agli americani dato il loro diretto coinvolgimento nelle storie dei miliardari che iniziarono le loro ascese con il mitico unico Dollaro.

La donna che visse due volte (Vertigo)

vertigo
Voto 4.5 Prendete un bel respiro prima di iniziare a guardare questo film, perché poi non ne avrete più il tempo. Potrebbe sembrare un’esagerazione, ma stiamo parlando di Alfred Hitchcock quindi almeno nelle sue intenzioni non lo è. C’è qualcosa in quest’opera che sembra inspiegabile, una certa attrazione che il regista ci provoca verso lo schermo; assolutamente senza colpi di scena, lo spettatore si avvicina ad ogni atto sempre di più al film, sia fisicamente siamo portati ad allungare il collo per investigare insieme al signor John Ferguson (James Stewart), sia figurativamente ci immedesimiamo nel sentimento di spaesamento continuo durante tutta la storia. Il titolo originale è VERTIGO, molto più adatto a preparare il pubblico per i continui dubbi e le innumerevoli svolte della trama; la sceneggiatura è proprio per questo un disegno preciso e ben definito, l’abilità di Hitchcock è quella di sequenziare le scene in modo netto, per far si che le vicende possano susseguirsi con un senso logico estremamente razionale nonostante il film parli della paura. Vertigini, a causa della morte di un suo collega della polizia John prova panico per le altezze, lascia così il suo lavoro, ma subito gli viene proposto di investigare sul caso di una donna (Kim Novak) che per alcune ore della sua vita cade in un profondo stato di incoscienza e crede di essere Carlotta Valdes, una morta suicida sua bisnonna. Se ne innamora, si fa scoprire quando la salva dal “secondo” tentato suicidio durante il suo stato di trance, è follemente intenzionato a salvarla e ripercorre così con lei la vita della defunta Carlotta. Oltre alla completa caratterizzazione dei personaggi, il regista in questo film allarga le sue inquadrature, ci mostra la San Francisco sia caotica del pedinamento nel traffico, o meglio nella intricata storia di Madeleine, sia pittoresca e un po’ misteriosa nelle sue periferie. Non c’è unità di luogo e di tempo, il solo cardine della trama è il tentativo razionale di spiegare prima la paura, poi un sentimento, poi una malattia, per concludere con la soluzione definitiva: la confusione, l’imprevisto spiega ogni cosa.