Questa è una raccolta di poesie scritte in una lingua particolare che è il milanese sentito dall’autore Franco Loi.
Vi accompagno nella mia lettura che prende vita dalla poesia VIII, dove c’è il passaggio dall’infanzia, semplice, meravigliosa e senza contrasti, all’orrore dell’essere adulti; il cambiamento è scandito anche dalla lunghezza del testo che rivela una crescita, non voluta, da ciò che prima era quasi un idillio.
“el popul tas e par ch’je varda no,
che tra’l sbraghèss di mort, la gent, i boia,
ghè’me’na trecca, un sussur setíd,
un strengiment,
che’l su che par ja scalda,
fa fregg a l’anema, in pressa de murí.”
Nomi famosi affiorano per sbaglio in una città che non fa altro che sputare; tranne dove compare Noventa, il quale porta nostalgia, vento di tradizione poetica. C’è un filo del racconto, si alternano pause e corse, sguardi a Dio ed il grugno nascosto della Zangelmi.
Poi un pipistrello vola:
“la vula nel penser che l’è la mort…
…mort fa de luna che la va su j omm,
omm fa de tèra che suspira al ciel”;
e tutto ciò che sta intorno via Teodosio è onirico, slegato, storia di Chiesa e Cesari che fanno il bagno nel latte di vacca perché la civiltà è spazzatura di carta straccia e gente morta; e tutto questo lavorare raffredda la vita.
Ed il poema diventa storia del mondo in cui vige la legge della ghigliottina:
“madam Ghigliòtt l’è là, su i trav,
oh lama,
che taja el ciel, i test che trunch je va
tra j ogg de aria, vegg sperans massa,
l’è là che Robespièrr le sping la vita”.
La dannazione sta da entrambe le parti: “ragione, ragione, che come la religione sventra gli uomini”; finché il teatro ribalta la visione di via Teodosio e “basta storia, basta libri, io quelli che verranno li vedo qui: la società futura”. E si sente Lenin e si legge:
“e quèla gent ch’j varda engenuggià…
ombría di làmped smort, dunda j impicca,
j mov vusa aj strad, i strad respund e tas,
Incho l’è comunìsmu,
e va’ffa’n cu l’doman.”
Al componimento XXXII c’è la Milano di Parini inquinata e gli operai vanno a crepare ma sognano il coNSuMismo. Lo sguardo è decadente, si inveisce contro tutto e tutti perché quel pezzettino di valore che rimane l’hanno nascosto; dal domandarsi se una via può rappresentare vita e morte al dannarsi contro chi ha trasformato quella via in immondizia. Noventa ricompare ed è una mano tesa a riportare l’uomo via dalla strada verso il sole, verso l’ora eterna del teatro, ma è solo ricordo.
Qui termina la parte del poema, Franco Fortini nell’introduzione invita a leggere il dialetto di Loi come un rifugiarsi nei ricordi dell’infanzia, dell’età in cui lo stupore e la meraviglia tenevano gli uomini lontani dai mali ma non in senso mimetico (la mia esperienza è immagine dell’esperienza di tutti), bensì patetico, tragico, soggettivo.
Infine la seconda parte è una serie di allegorie, metafore che attraverso gli animali fanno volare al contempo sopra e dentro gli uomini; sono situazioni in cui qualcosa di bello è distaccato dalla terribile umanità ed il significato torna nella natura: la morte è innamorarsi, e, come nell’inverno, stare alla finestra a guardar nevicare.
“La mort l’è innamuràss, e, ‘me d’inverna,
stà a la fenestra a vedè fiuccà.”