Storia di una Coccinella

-Libertà! Libertà!- urlava la coccinella: era ciò che cercava, nient’altro.

-Libertà! Libertà!- aveva urlato tante volte, senza mai trovare né pace né un posto dove sentirsi libera. Eppure quel giorno le cose stavano per cambiare: tanti luoghi le erano passati sotto le zampe, ma un attimo solo bastò per toglierle di dosso quel peso che per lei significava volare.

Una coccinella non è contenta quando si libra in aria, perché ciò vuol dire per prima cosa rompere la magica armonia del suo guscio rosso chiuso, e poi sollevare da terra l’animale che porta addosso la più grande quantità di fortuna nel mondo, non è mica cosa da poco. Comunque una coccinella deve volare per forza: è proprio il suo compito quello di portare la fortuna nei luoghi dove si posa. Il Cielo ha deciso così in modo da distribuirla un po’ casualmente, un po’ senza pregiudizi, lì dove la Natura desta ancora la curiosità delle persone.

Ora, la coccinella di cui raccontiamo la storia, dal giorno della sua nascita aveva questo tarlo in testa: la sua fortuna non avrebbe avuto destinatari casuali, ma sarebbe stata diretta a chi l’avrebbe fatta sentire libera. Faticando senza sosta, spiava il mondo umano per cercare persone adatte alle sue grazie. Andò prima da un contadino, che doveva essere il più vicino di tutti alla Natura, sperando di non dover ritardare così la sua ricerca e trovare subito qualcuno a cui regalare la sua fortuna. Lo osservò tutto il giorno e vide che quell’uomo non si era mai veramente sporcato le mani; ciò non andava bene ma gli diede ancora un po’ di tempo e quando sul far della sera, il tramonto non significò altro che l’agognata fine della fatica per il contadino, la coccinella volò via da chi non era più capace d’incantarsi.

Avvicinandosi alla città la piccola portafortuna sentì dalla finestra di una bella villa di periferia, la voce di un uomo che strillava proprio quelle parole: -Libertà! Libertà!-. Lei corse eccitata dentro la camera e dopo aver schivato le braccia frenetiche di quel tale, lo ascoltò inveire in preda alla pazzia: -nulla deve interferire con il mio discorso sulla libertà! Se non andrà bene non verrò eletto e avrò buttato via anni ed anni di carriera!-. Le ultime parole erano già attutite perché la coccinella si trovava già molto lontana da quella casa; inorridita da ciò che aveva visto ma speranzosa per il suo prossimo obbiettivo. L’ora di cena era passata da un po’ e non fu facile trovare una luce da cameretta ancora accesa ma ce la fece e si appoggiò sul comodino di un bambino con lo zaino di scuola già pronto per il giorno dopo:

-Ciao signora coccinella! Cosa stai cercando?-

-Sto cercando un po’ di libertà dove andare a lasciare la mia fortuna.-

-Io non so signora coccinella dove sia questo posto, so che io sono stato molto fortunato ad avere tutte queste coccinelle qui nella mia cameretta; quindi se vuoi puoi stare con le altre qui sotto le coperte dove mamma non vi vede che se no vi uccide!-

La coccinella lusingata non poteva accettare perché aveva capito che i bambini erano stracolmi di fortuna e allora cercò ancora tra le tante persone che abitavano la città, qualcuno a cui dedicarsi. Incontrò un medico ma come il contadino era schiavo del suo lavoro; incontrò un operaio accecato dalla rabbia, un falegname ossessionato dalla povertà ed un impiegato in crisi con se stesso. Nessuno meritava la fortuna, nessuno l’avrebbe potuta tenere al suo fianco senza esserne sopraffatto; così la coccinella si ritirò in un parco in mezzo a dei condomini piuttosto tristi dove si pose su una foglia per riposare.

-Libertà! Libertà!- urlava la coccinella: era ciò che cercava, nient’altro.

-Libertà! Libertà!- aveva urlato tante volte, senza mai trovare né pace né un posto dove sentirsi libera. Eppure quel giorno, su quella foglia era piovuto un barattolo dentro il quale la coccinella stava sballonzolando tra le mani di un giovane che correva a più non posso. Era questa la sorte di chi chiedeva a gran voce la libertà ed in cambio portava fortuna? Se le cose stavano così avrebbe continuato a sbattere contro le pareti del contenitore finché tutta la dose di fortuna che portava con sé sarebbe svanita; però il ragazzo si fermò.

-Ecco amore, guarda. Guarda com’è bello il suo guscio, come te. Ai miei occhi ha una perfezione irraggiungibile e dicono anche che porti fortuna: allora la voglio regalare a te perché avendoti qui non ho bisogno di altro.-

-Amore è bellissima ma così morirà, la devi liberare.-

-Ma… è il mio regalo, così non ti avrò dato niente…-

-Non importa, grazie comunque.-

Una volta aperto il tappo però, la coccinella intontita restò lì, pronta a dispensare la sua fortuna ai due amanti, mentre li ascoltava sussurrarsi -ti amo-.

Storia di un leone

Purtroppo il leone di cui vi stiamo per raccontare la storia, non c’è stato modo di conoscerlo bene da quando è nato, ma certamente vi possiamo narrare tutti i dettagli della sua vita, o almeno quelli che abbiamo potuto vedere, dal giorno che le sue zampe calpestarono questo territorio.

Fiero e possente veniva a chiedere aiuto perché il branco con cui stava non si era salvato da una terribile alluvione capitata nelle sue terre; nessuno di noi gli credette al momento ed il nostro capo pensò fosse stato sconfitto in un duello mortale per il primato di caccia, come spesso avviene qui, e perciò anche noi temevamo che il suo fosse un animo ribelle che prima o poi avrebbe tentato di sovvertire la nostra pace. In ogni caso le sue ferite erano evidenti e decidemmo bene di prenderlo in cura ed accoglierlo come un fratello,in modo che recepisse la bontà che regnava i nostri giorni e ne fosse talmente assuefatto da dimenticare le sue origini guerriere.

Passò dei giorni orribili e le notti furono ancora peggiori se possibile: urlava come se il dolore delle lacerazioni gli avesse raggiunto il cuore trapassandolo da parte a parte. Per fortuna una nostra antica usanza lo risollevò in pochi mesi ed il suo corpo dilaniato riprese forza passando le sere accanto al falò dove sempre un membro del clan prendeva parola e raccontava agli altri le gesta di antichi avi che custodivano la nobiltà della propria famiglia. Io stesso fui affidato alle cure di questo nuovo arrivo e un po’ per ingenuità, un po’ per abitudine ad un tale atteggiamento da parte sua, cominciai ad amare il silenzio e a vederlo come aiuto nelle nostre eroiche missioni: se le prime volte mi accingevo a salvare una preda distogliendo il suo assalitore con rabbia e ruggiti, dopo qualche tempo in fianco a questo leone, balzavo in una sola mossa sopra il predatore spaesato ed azzannando poi l’animale cacciato lo portavo lontano dal pericolo in pochi istanti.

Quando vidi per la prima volta il nuovo arrivato utilizzare questa tecnica, vidi allo stesso tempo la ferocia per cui la nostra razza è temuta e ricordandomi le supposizioni del nostro capobranco, fui certo della sua spaventosa indole, la quale mi terrorizzò ulteriormente quando vidi lo sbigottimento di quell’incredulo animale che egli aveva appena salvato. Eppure il gesto era innegabilmente proficuo: egli adempiva magnificamente al compito al quale noi venivamo iniziati dopo anni ed anni di strenue osservazioni e lunghe battaglie. Come poteva, a suo modo, quel leone riuscire in ciò? O almeno come poteva farlo senza rimpianti o tentazioni? In fondo non è nella natura del re della foresta salvare le proprie possibili prede da altri predatori; noi facciamo questo in quanto custodi di valori profondi ed oscuri, ma proprio grazie al nostro numero esiguo e all’estrema forza di volontà, possiamo svolgere buone azioni e mantenere gli equilibri prestabiliti.

Fatto sta che il nostro legame divenne indissolubile; guardavo a lui ed imparavo quel suo modo di guardare e di pensare e di agire che come un lampo gli permetteva di riuscire a non essere intaccato. A me sembrava infallibile, quando però mi tornò in mente il suo arrivo non esitai a chiedergli chi o cosa lo avesse ridotto in quello stato:

«Partii un giorno di qualche tempo fa verso terre amiche dove sapevo che tra i tanti animali in difficoltà a causa dell’uomo, c’era una giraffa che anni prima avevo aiutato ed indotto dalla mia giovane curiosità, volli ritrovarla.

Giunto tra quelle gabbie con altre sembianze,subito la trovai ma per non destare sospetti, feci un lungo itinerario per osservare quelli di noi caduti tra le grinfie degli uomini. Ognuno guardai ed ognuno riconobbi con una gioia immensa negli occhi e nel cuore perché da leone buono quale sono, li vedevo vivi ed occupati. Dopo aver salutato con passione la bellissima giraffa che conoscevo, mi giunse voce di un fiero elefante che era riuscito in terre magiare, a metter su famiglia e dato che ai tempi della savana lo avevo tolto dalle grinfie della morte a pochi mesi di vita, intrapresi un breve ma burrascoso viaggio oltre i nostri confini per avere a che fare con lui.

Oh avessi idea di quanto fu appagante che anche lì conoscessi animali che tra le mie zanne avevano ritrovato la vita! Passai molto tempo con l’elefante e trovai bellissimi leoni, foche, orsi, tristi rinoceronti e giraffe in depressione. Vedi, questo fu per me un momento terribile, quasi non riuscii a trovare la strada del ritorno e talmente spiazzato fui dagli stenti dei nostri compagni, che il cuore cedette e non so come riuscii a tornare qui.»

Con la bocca spalancata non potevo riprendere fiato: quella era la storia che io raccontavo al falò, di quando mio nonno, una leggenda del branco, aveva preso la strada del non ritorno per ritrovare tutti gli animali che aveva salvato e ricordarsi così della bontà della nostra razza. Era ritornato e proprio io, suo nipote, lo avevo accudito e mi ci ero affezionato, tanto che quando giunse la notizia di un bellissimo delfino che per orgoglio non avrebbe voluto farsi aiutare; senza alcuna parola presi il passo al suo fianco in direzione di…

Storia di una coppia

Seduto vicino alla finestra aveva appena rimesso il telefono dentro l’astuccio: la sua ragazza per la terza volta in una mattinata di scuola gli chiedeva -Che fai? -. Stavano insieme da quasi un mese e lei aveva già finito le cose da dire, era inspiegabile.
Dopo alcuni minuti e l’ennesima sfuriata della professoressa contro l’incapacità generale della classe, il telefono vibrò ancora e le sue previsioni si avverarono una dopo l’altra: lei si stava arrabbiando perché lui non rispondeva ai messaggi, lo stava già minacciando dopo dieci minuti di lasciarlo e di dire a tutti che i suoi baci non erano poi gran ché e qui fu costretto a rispondere. Non è che lo disturbava la voce che si sarebbe sparsa, non gli andava di creare discussioni inutili che poi avrebbero rovinato i rapporti di tutta la compagnia. In fondo alla loro età non è che potevano creare una coppia stabile che si sarebbe sposata, era giusto che provassero nuove esperienze e soprattutto dato che lei ci provava con lui da tempo, doveva darle almeno la soddisfazione di farlo più di due volte, altrimenti nemmeno lui avrebbe capito per colpa di chi tra loro due il sesso non stesse funzionando.
Seduta ai piedi del letto aveva appena rimesso i libri nello zaino e preparato le lezioni del giorno dopo. Era brava a scuola, i voti erano alti e la passione come quella di tutti: mancante. A nessuno poteva piacere la scuola, era colpa di quei vecchi professori che non capivano i nuovi libri, il modo di comunicare dei giovani; grazie a Skype parlava ai parenti che nemmeno aveva mai potuto vedere, grazie a Facebook la classe ad esempio condivideva i dubbi ed i compiti, nulla poteva unire le persone così tanto. Proprio allora vibrò il telefono, qualcuno le aveva mandato un messaggio. Lei in realtà non aspettava nessuno, o meglio sapeva che di certo non avrebbe passato il resto della giornata senza scrivere ai suoi amici, ma di preciso nessuno sa mai chi prenderà la briga di contattare gli altri. Invece questa volta il numero non era salvato in rubrica e la sua attenzione si attivò all’istante, lasciò persino parlare la TeleVisione da sola. Era un ragazzo che aveva conosciuto il sabato prima al compleanno della sua amica. Quella sera lo aveva notato proprio perché era l’unico che aveva una ragazza da poco tempo, nessun altro infatti teneva la propria lei per mano tutta la sera ed addirittura ballava tutte le canzoni insieme. Andava bene dimostrare affetto, ma essere così sdolcinati era una caratteristica che avevano solo le giovani coppie. Ad ogni modo per un po’ con la scusa che nessuno dei due aveva da fare, parlarono delle loro vite, di quali erano le loro passioni (lui era il tipico calciatore provinciale e lei l’amabile danzatrice moderna), di come lui avesse dei dubbi sulla propria relazione e di come lei fosse stanca di non trovare nessun ragazzo che la volesse per più di due settimane.
Si scrivevano da quando era tornato a casa, era già uscito con gli amici, era andato ad allenarsi e ancora alle undici di notte il telefono vibrava con tempismo svizzero: se uno dei due non rispondeva entro il tempo previsto, l’altro rimandava lo stesso messaggio, senza lamentarsi, con una strana complicità che doveva significare qualcosa. Ogni tanto lui era costretto a rispondere alla sua ragazza, sia per verificare la propria abilità nel parlare con due persone in contemporanea, sia per dimostrare a se stesso che la decisione di lasciarla era fondata: si vedeva chiaramente che non avevano più nulla da dirsi, mentre con quella del sabato sera gli argomenti stavano diventando sempre più intriganti.
Era da tempo che lei non si sentiva così, aveva voglia di leggere le risposte di quel ragazzo che senza dirle qualcosa di particolare, le stava facendo capire che era davvero interessato a conoscerla. Addirittura era arrivata al punto in cui non sapeva se dire che gli stava scrivendo da sotto la doccia. Era una cosa intima già di per sé, farglielo sapere avrebbe forse rovinato aumentato il desiderio fisico che non avevano ancora nominato.
Ci era riuscito, era stata lei per prima a dire una cosa passionale, spinta. Ora lui era libero di sfogare tutte le pulsioni che nella sua mente vagavano dalla prima pubertà e che non era stato così stupido da sprecare con le conquiste precedenti. C’era un sogno che desiderava raccontare da circa un mese e che forse era troppo violento per la sua ragazza, ma che ora avrebbe rivelato il limite entro il quale si sarebbe spinta la sua amante.
Lei non riusciva a crederci, solo in un giorno, nemmeno, lui era riuscito a farsi desiderare così tanto. Certo per un momento aveva pensato che quel messaggio poteva averlo scritto a così tante persone che avrebbe dovuto mandarlo a quel paese. Però si era resa conto, leggendo tutti quei particolari, che quel ragazzo ci sapeva davvero fare, conosceva le cose che anche a lei piaceva ricevere, sembrava sapere dove mettere le mani, probabilmente già si immaginava che entro pochi altri messaggi sarebbe riuscito a toccarla indirettamente.
Lui ce l’aveva fatta. Ancora qualche giorno e sarebbe già potuto andare a casa sua a provare quel desiderio nascosto. Per sicurezza inviò un messaggio alla propria ragazza dicendole che dovevano parlare, in modo che una volta scoperta la sua nuova relazione potesse levarsi le colpe di dosso.

Anita

In qualche modo Anita era riuscita a prenotare la vacanza che lei e le due figlie desideravano da anni senza pagare cifre esorbitanti. Venezia dopo il Carnevale, partenza strategica, musei silenziosi privi di turisti ignoranti, vie libere dai greggi erranti di persone; insomma una splendida città da assaporare con la calma di chi sogna da tempo una meta, un luogo che diventi il simbolo della pace interiore.
Julia e Claudia se lo meritavano: erano sempre restate accanto alla madre mentre quel papà assente la trascurava, la lasciava da sola fino a sera tardi, tornava a casa con addosso la puzza di altre famiglie, altre bambine. Claudia aveva già pensato che quello non fosse il suo vero padre, ma dal fatto che Anita lo aspettasse ogni notte sveglia, aveva capito che qualcosa di forte doveva pur esserci tra loro. Julia era troppo piccola, qualsiasi cosa sarebbe successa in quel matrimonio avrebbe dovuto restare nascosta, e quel futuro supposto ogni gioro era arrivato ed il divorzio era stato organizzato il giorno prima della partenza per quella magnifia città italiana.
Colori sgargianti, ecco cosa non doveva mancare nella valigia delle tre donne. Quel cappotto rosso che non aveva il coraggio di mettere a casa, all’estero le avrebbe ridato la convinzione di essere indipendente dagli occhi altrui; i capelli biondi e lisci che tradivano le origini tedesche potevano ricadere finalmente sulle spalle e darle forse quel pizzico di femminilità che in mezzo ai tratti mediterranei le sarebbe mancato. Le due figlie non avevano le stesse motivazioni della madre e per loro andare a Venezia durante i giorni di scuola, avrebbe significato essere al centro dell’invidia dei compagni di classe: quale gioia più grande! Claudia che era più grande di qualche anno, si sentiva in dovere di crescere in fretta, di aiutare la madre con le prenotazioni in Internet, di scegliere i musei da visitare. Con sé portava i vestiti preferiti, quei pantaloni che adorava perché erano gli unici a renderle il fondoschiena come lo voleva: non perfetto, solo come voleva.
Julia era in trepidazione da giorni, ansiosa di partire, eccitata per quella vacanza di sole donne; in fondo a lei quel papà non stava simpatico, certo non le aveva mai fatto nulla di male, ma dalle sue amiche sentiva solo racconti di padri amabili, appassionati di zoo, piscine, Luna Park, giostre, cartoni, bambole, mare, sole e meraviglie.
Anita le aveva fatto desiderare Venezia, la notte, prima di dormire le parlava delle gondole, dell’acqua che appariva ad ogni svolta come se dei maghi con i pantaloni neri, la maglia a righe bianche e rosse, un cappello di paglia intorno al quale era avvolto un nastro di seta, ed una bacchetta magica lunghissima che fendeva i canali e spostava sulla marea quel piccolo insieme di legno nero lucidissimo ed intoccabile.
Mano nella mano Anita, Claudia e Julia stavano camminando sulle piastrelle argentate della città sul mare. Il naso puntato al cielo prima a destra e poi a sinistra, verso edifici che nascondevano le loro fondamenta con tanta grazia che dopo solo pochi passi le tre donne si dimenticarono di essere come sollevate dal suolo.
Piazza San Marco si apriva alle loro braccia spalancate, piatta, magnifica, continua rispetto alla linea dell’orizzonte, senza confini, immensa.
I progetti di Anita erano stati fatti con cura: addirittura non c’era nessun altro in quel momento, lo spazio era solo per loro tre. Le risate gioiose di Julia facevano da sfondo alle parole di Anita e Claudia. Guardavano il loggiato ripetuto a non finire, mentre Julia rideva ballando loro in tondo; indicavano il campanile altissimo dal quale pochi giorni prima la famosa colombina si era lanciata, mentre Julia rideva correndo contro la folla di piccioni; studiavano l’acqua che si alzava dai tombini della piazza; sorridevano per aver schivato quegli animali quando nella piazza non c’era nessun altro che potesse confermare il numero impressionante che componeva lo stormo.
-JULIA! JULIA! JULIA!
Dove sei?! JULIA! -.
Un cappotto rosso si stagliava nel grigiore delle pietre di piazza San Marco. Sembravano lapidi ad una madre che in quel giorno non trovava sua figlia. Claudia non sapeva cosa fare, seguiva a ruota il percorso convulso di Anita in preda al terrore urlando a fiato soffocato -JULIA! -. Silenzio. Una piazza vuota esprimeva il peso che aveva dentro Anita. Silenzio. L’acqua borbottava dai tombini. Il mare rumoreggiava mangiandosi la terra. Silenzio. Ogni tanto le urla sconnesse -JULIA! -… -JULIA! -… julia.

Un sole di giorno

Michele era quello divertente. Voglio iniziare a raccontarvi la storia di un gruppo di amici proprio da lui perché egli era il collante. Quando qualcosa andava storto: quando cioè gli altri discutevano, o dopo una serata andata male, o quando la tristezza assaliva un po’ tutti nei giorni grigi di pioggia, Michele sfoderava la sua faccia da buffone. Non era il tipo da barzellette, anzi era quello che trovava le storie più imbarazzanti da raccontare: era quello che iniziava i discorsi dicendo: -Si si come quella volta che… – oppure -Bé ma non sapevate che pure uno da Milano… – o anche -E magari finisce come il tizio di Youtube! -. Tutti dopo le sue parole si dimenticavano del mondo intero e le risate soffocavano gli insulti o gli spasmi rivolti a questa e a quella storia volta per volta; era necessario perché grazie a lui era come se si potessero dimenticare le poche ingiustizie che potevano capitare: come un pettegolezzo di troppo, o un bicchiere di vodka non offerto, o un’amicizia tradita per una ragazza.
Vanessa non andava dietro a nessuno. Questo non implica che lei fosse una delle trascinatrici del gruppo, ma da quando gli amici avevano iniziato a trovarsi lei era quella che dava buca più spesso; non che fosse una falsa opportunista, solo aveva passioni diverse. Un mese le piaceva il cinema e quindi preferiva uscire col padre a guardarsi un film, poi sentiva il bisogno dei suoi coetanei e tornava tra le amiche per svestirsi come loro. Un mese trovava su Facebook un ragazzo dalle più sconosciute province del mondo e non staccava più gli occhi dal telefono, finché anche lui come tutti gli altri le chiede foto intime e quindi lei preferisce mostrarsi ad occhi veri e non ad un I-phone. In un certo modo Vanessa è una ragazza indipendente: quando c’è fa sentire la sua forza di donna, quando manca lascia un po’ di scena alle altre, senza però far mai pesare la sua trascinante bellezza. A differenza di Michele lei non vede il gruppo, certo guarda tutti ma quando arriva è come se per lei esistesse solo Federica.
Federica era quella furba. Sono sicuro che tutti abbiano in mente l’immagine della perfetta amica che nel momento in cui ha bisogno di una spalla su cui sfogarsi, non sceglie noi, nonostante le avessimo confidato tutta la nostra vita. Chiaramente lei ammirava Vanessa, e quando si presentava non ce n’era più per nessuno: scomparivano entrambe sotto chiacchiere copiose e fitte senza alzare la testa fino a che i loro polmoni avevano fiato. Quando invece era sola con gli altri era la ragazza dei diari: sempre innamorata dell’amico dalle scuole elementari (in questo caso Giovanni), quella coi migliori voti a scuola ma per niente sagace, quella rimasta fregata da tutti i suoi ragazzi nonostante cerchi ogni giorno un principe azzurro. Il suo problema era quello di non guardarsi attorno, viveva in un mondo di fiabe che non poteva darle ciò che desiderava perché i suoi sogni erano d’altri tempi; ma pur sapeva vivere. Federica era quella che cambiava di più nelle serate alcoliche: un bicchiere oltre il proprio limite e si trovava tra le braccia di amiche e amici di una sera, senza troppo distinguere tra donne e uomini si infilava nella stretta di qualcuno e tornava a casa spuntando con una croce una lunghissima lista di principi o principesse azzurre fallite.
Giovanni, quello bello, era il re della società. Nessuno poteva tenere lo sguardo alto quanto il suo in mezzo alla folla. Capelli arruffati, fisico scolpito, fascino innegabile, uniti ad una camminata altezzosa e ad un modo di fare che lo dimostrava padrone in tutti i contesti, si era creato una folta schiera di invidiosi, di meschini e finti tirapiedi, ma solo di pochi buoni amici. Ad ogni modo di questo piccolo nucleo di quattro ragazzi lui era il leader: parlava poco, solo quando si doveva decidere sentenziava la sua opinione. Giovanni e Vanessa avevano avuto una storia, durò anche tanto ma di comune accordo vollero assaporare la carne che c’era in giro, sarebbero stati sprecati due belli come loro se non si fossero fatti toccare da un po’ tutte le mani che si azzardavano a tanto. Qualche volta lui si tirava in disparte, per lasciare che anche la sua cerchia potesse godere delle gioie dei vent’anni, non era così egoista da precludere a Michele le forme del gentil sesso e nemmeno da privare Federica del piacere di allungarsi sul suo corpo, solo che per questo secondo Giovanni non c’era ancora stato tempo. Altro su di lui non si può dire, altro su di lui probabilmente non c’è.
Questi storici amici avevano una buona ventina di altre persone che ruotava loro intorno. Bestie assatanate di fama e popolarità davano corda alle loro iniziative, seguivano i locali che frequentavano loro, approvavano incondizionatamente le mode che volevano, insomma la gente degna di nota in quella zona si riuniva intorno a loro quattro e creava la tendenza indiscussa della generazione cui appartenevano.
Da tempo succedevano poche cose. Non molti giorni passarono prima che Giovanni decidesse il da farsi.
Vanessa quella sera era attaccata al telefono: stava messaggiando con un certo Steve che lavorava a Milano presso alcune agenzie di moda e che da tempo guardava le sue foto in Internet. Michele stava con una ragazza alla quale le sue storie piacevano anche troppo e da alcune settimane non aveva che attenzioni per lei e per il suo seno che tutta la compagnia conosceva oramai a memoria. Federica e Giovanni se ne stavano seduti nel divanetto praticamente in centro al locale per mostrare quanto le loro lingue potevano avvinghiarsi l’una con l’altra. Era persino partito qualche applauso quando i due si erano appartati con leggero imbarazzo, ma lui sapeva che per essere notati da tutti doveva intrattenere la marea di persone con una delle sue cavolate. Prese tre birre e le scolò una dopo l’altra incitato da un’orda di idioti, subito saltò oltre il tavolo degli amici e prese per i fianchi Federica mentre lei alzava una mano verso un qualunque DJ che stupiva la folla con la canzone più scaricata del momento.
Vanessa sapientemente scrisse un messaggio a Giovanni che trovò il tempo di leggerlo quella sera stessa. Nei bagni di quel locale Vanessa e Giovanni si erano dati il loro primo bacio, e sempre quella sera avevano fatto sesso per la prima volta. Tra quelle mura era racchiuso il segreto del loro rapporto fatto di un’incredibile attrazione di corpi. Si erano amati forse dalla prima volta che lei gli aveva sbottonato i pantaloni, dato che con quel gesto a lui erano state tolte tutte le timidezze e ed era così divenuto l’uomo più affascinante della serata. Ancora una volta non potevano fare a meno di mettere le mani sulla carne che aveva svelato ad entrambi la carica di un corpo umano; il loro bacio durò finché un ubriaco tentò di buttare giù la porta, ed allora furono costretti a fuggire da un’uscita di sicurezza per continuare in mezzo alla notte a provare quelle sensazioni che li rendevano così sicuri di padroneggiare le proprie facoltà.
Federica raccontava ad una barista al banco il sogno di avere una famiglia guida nella comunità in cui sarebbe andata a vivere col suo principe, mentre un uomo di qualche anno più grande le offriva da bere.

Una Visione

I raggi del Sole quel giorno illuminavano ogni granello di sabbia in modo che la tristezza non potesse sorprendere quei tre ragazzi in alcuna maniera. Delle tante fasi della vita di un individuo, né Marco, né Andrea, né Asia, sapevano in quale della loro si trovassero. Soltanto spensieratezza, gioia di vivere, o meglio totale indifferenza verso il domani, voglia di giocare, ebbrezza; nient’altro colmava i loro candidi cuori intorpiditi dall’inverno ma aperti tra le dune di quella spiaggia al più imprevisto e roseo presente che dei giovani possano sperare. Marco urlava, niente più, pacatamente squarciava il cielo col più educato e sobrio sentimento che la sua ugola riusciva a toccare. Andrea lo chiamavano sognatore, ad occhi aperti finalmente, abbracciato da quel primo vento di Primavera, con fare da ribelle sfidava il cielo a distogliere lo sguardo. Asia li guardava, rannicchiata sulla sabbia, con le ginocchia strette al petto, guardava i suoi amici ed ascoltava; il suo cuore, amplificato da quella timida posizione, batteva più forte che mai.
Forse passarono ore in quello stato di estasi, forse non siamo fatti per sopportare la gioia.
I tre occuparono la culla primitiva, nel ventre assolato della sabbia rifugiarono le loro passioni ed i loro amori; pensavano alle loro vite, come fanno tutti, sempre a quelle passate. Dev’essere qualcosa di innato, quello li rendeva felici: uno ricordava la ragazza mai conquistata, in quella età ce n’è sempre una. Non si sa bene chi sia, forse passa anche per la testa che non si possa avere rimpianti. Ma lì con quel mare immenso di fronte, a lui andava a pennello quel pensiero.
L’altra era triste, ma lo sapeva solo lei; cioè mostrava un sorriso splendido, fatto di una vita ingranata a puntino, coi giusti equilibri tra casa e cose, tra voglie e doveri, tra realtà ed aspettative. Ma è una ragazza. Era triste e solo lei sapeva davvero cos’era che non andava.
Lui non pensava, certo per il solo fatto di capire che aveva la testa vuota si rendeva conto che qualcosa non andava. Aveva smesso di urlare parecchio tempo prima, ma era l’eco. Ecco cos’era: la eco delle sue grida! Il mondo gli rispondeva, Marco lo sentiva dentro sé, che quel lontanissimo suono era il suo Dio, quello che ognuno ha nella propria testa, si si esattamente quello che tutti gli esseri umani sentono!
Quella parte in fondo al cervello che si avvicina pian piano ai nostri pensieri per dirci che tutto sta andando, che tutto gira come volevamo, che per quel momento, di quell’attimo, ci ricorderemo per sempre.
Stava andando così, Marco chiuse egoisticamente gli occhi, voleva che a quell’annuncio di gioia partecipasse solo la sua mente. Si avvicinava, come se fosse un urlo indistinto di terrore, certo non sembrava quello, ma per descrivere quelle grida nella testa, l’immagine più adatta era la reazione alla paura, quella non sensata, quella che provoca un’ondata di panico continua che arriva a coprire tutti gli organi della natura intorno a te anche se non fanno parte di nessun… basta.
Le grida erano divenute troppo reali. Un concreto qualcosa doveva essere origine di quel suono. Marco non poté trattenersi ed aprì gli occhi; Andrea si era addormentato, Asia sorrideva al vuoto. Qualcosa provocava tutte le sensazioni che stava avvertendo, forse erano impercettibili agli altri ma Marco poteva quasi identificarne la provenienza. Si guardò attorno strabuzzando gli occhi, come un radar. Sorrise, poteva essere l’alcool. Era laggiù; come una medusa le si muoveva il vestito. Stava guardando con tanta attenzione che quasi vedeva anche ciò che stava al di sotto del livello del mare. Asettico, chirurgico, da manuale: il dottore dei tuffi. L’acqua era sempre stata il suo elemento e se lo ricordò subito. Non appena la sua testa fu sommersa l’urlo divenne ovattato, il mare profondo; era già al largo.
Tirò fuori la testa, le urla tornarono disumane; ma Marco era superiore a loro, sapeva ancora distinguere la realtà dalle aspettative. Urlò ai suoi amici. Poteva capire Andrea ma Asia? Come poteva ignorarlo? Si concentrò per vedere cosa stesse facendo. Asia si contorceva, non fisicamente, no Marco la distingueva nonostante quella distanza: il suo non era un sorriso. Si voltò verso l’aperto blu, quello divenuto profondo tutto d’un tratto. Sinuosa la figura di quella donna avviluppata nel cielo oceanico si contorceva anch’essa.
Il freddo, ecco cosa faceva da isolante, però era dolce, come in un sogno. Il freddo era la qualità che faceva sembrare lontano l’urlo di gioia nella testa di Marco pochi minuti prima. Il freddo tratteneva le grida, il blu racchiudeva quello stato d’incoscienza desiderata, ma irraggiungibile.

Storia di una Paura

Il Natale non era mai stato cosí luminoso; c’era qualcosa quell’anno che riusciva ad emanare ancora piú potente la magnifica magia di quel sorprendente periodo dell’anno, fatto di strade fredde, salotti riscaldati da cenoni e chiacchere, strane sensazioni di buon umore e riposo.
Ad Andrea il Natale piaceva, non lo aveva mai ammesso esplicitamente, o almeno non aveva mai rivelato quanto profondamente il suo spirito si facesse coinvolgere dalle Feste. Lui era un uomo, poteva al di piú dimostrarsi felice per le vacanze, la pausa dal lavoro, le rimpatriate tra amici, con la famiglia, le gigantesche tavole imbandite; non oltre, non ammetteva quanto solo quel tempo d’inizio inverno lo confortava, gli dava la giusta dose di stima verso il genere umano che di quei tempi scarseggiava alquanto.
Giusto ad inizio Dicembre Andrea aveva cambiato lavoro, dopo anni gli era giunta la risposta di un’azienda distante poco meno di un chilometro da casa sua, e l’occasione non era solo appetibile, significava addirittura comoditá che nemmeno si immaginava: prima di tutto risparmi assicurati su tutti i fronti, piú tempo a casa con la famiglia, di sicuro meno stress e stanchezza, inoltre di certo camminare non gli avrebbe fatto male.
Solo un problema era sorto giá dal primo giorno di lavoro. La mattina all’andata non aveva notato nulla, la nebbia gli dava uno stato di quiete insensibile, come se quell’umiditá densa lo avvolgesse in un abbraccio che solo la Natura riesce a dare; mentre a sera inoltrata, tornando verso casa, ad Andrea non piacque molto la strada. Quella piccola via era si illuminata, ma giá quel suo primo giorno di lavoro al ritorno, nessuno oltre a lui la frequentó, non che questo fosse motivo di temere chissá cosa, solo non era un buon auspicio in quel periodo piuttosto sereno. Certo la cittadina dove abitava non si poteva dire densamente popolata, ma nemmeno capitava spesso che ci si trovasse in un vicolo dove, come si suol dire, non volava neanche una mosca. Inoltre quella sera arrivato a casa, Andrea non poteva condividere i suoi pensieri con la moglie, era cosí orgogliosa del suo nuovo lavoro che avrebbe dato una codardissima immagine di se stesso, figurarsi coi figli.
Ad ogni modo come era prevedibile accadesse, con il sonno tutto finí negli angoli remoti della mente e al suono della sveglia, egli si preparó e si incamminó verso il nuovo lavoro senza minimamente pensare ai timori della sera prima.
Ancora la nebbia lo accolse, tra le calde strette della magia del clima natalizio, Andrea andó il secondo giorno a lavoro confortato dal suo sentirsi a casa, padrone della sua vita e del mondo che viveva, lasciando ogni problema alle tenere gocce di condensa che l’umiditá creava in ogni posto in cui riusciva ad allungare le sue morbide arie.
Questa volta era paura, non solo un timore, la seconda sera, al ritorno, senza nessun altro lungo quella strada, con solo il rumore dei suoi passi a fargli compagnia, aveva provato paura. Capí che l’emozione provocata fu piú forte perché il giorno dopo andó a lavoro in macchina. Usó la scusa del freddo, che in realtà a lui era sempre piaciuto, lo distaccava dal mondo, gli dava la solitudine di cui ogni essere umano ha bisogno, ma non questa volta. Non voleva piú fare quella strada a piedi.
Tutto si sistemó. Dopo neanche una settimana sua moglie smise di chiedergli come mai avesse iniziato a prendere la macchina. Il lavoro stava prendendo la piega giusta e il titolare lo notava giá. Tra un senso unico e l’altro aveva allungato il percorso di ogni mattina, questo era l’unico aspetto negativo dell’aver abbandonato quella strada isolata.
Andrea era nervoso, non aveva digerito bene la cena della sera, si era svegliato una buona mezz’ora prima della sveglia ed era rimasto a guardare il soffitto finché la solita suoneria del telefono suonó. Si alzó di malavoglia, si vestí lasciando passare i calzini al contrario, la colazione non volle nemmeno toccarla. Scese le scale dimenticandosi lo scalino del garage e rischió di franare rovinosamente sui fari della macchina che emanavano una luce fioca.
Forse aveva visto male. Si rimise in piedi da uomo dignitoso sistemandosi il cappello e prendendo le chiavi, aprí la portiera e si mise seduto. Aveva il terrore di sentire il rumore del motore a vuoto. Cosí andó.
Aspettava da troppo, era chiaro che la macchina non si sarebbe accesa, avrebbe fatto tardi se non fosse partito immediatamente, ma se partiva non aveva piú scampo, quella sera, l’ultimo giorno di lavoro prima delle vacanze, sarebbe dovuto ritornare ad ascoltare solo i suoi passi, senza anima vive si sarebbe ritrovato in quella strada. Andrea si incamminó.
In fondo era riuscito a lavorare bene, pensando alla sua crisi psicologica che lo attanagliava, non si era fatto influenzare da quell’ iniziale timore che oramai si poteva chiamare panico. Era peggio di tuffarsi in un abisso, non sapeva come sarebbe arrivato a casa, credeva di essere nel pieno di un attacco di panico ma sapeva di essere lucido, era proprio il terrore che in quella stradina gli accadesse qualcosa.
C’erano dei cavi appesi tra un muro e l’altro ai lati della strada, cadenti vi erano agganciate delle scadenti luci natalizie, tutte di un giallo sbiadito che forse in un’altra situazione avrebbero reso quel vicolo accogliente, caldo, ma non quella sera. Non c’erano veri motivi per essere spaventati da quel luogo, ma Andrea non sapeva come fare perchè quel luogo fosse accettato dai suoi pensieri.
Lo guardava da giorni, lo aveva seguito ad inizio Dicembre quell’unico paio di giorni che era passato di lí, poi lo aveva aspettato, ogni giorno, ma sembrava non volesse piú percorrere il suo vicolo, forse si sentiva osservato, magari lui stesso aveva sbagliato e si era fatto notare.
Finalmente ripassó di lí, non avrebbe avuto altre occasioni, si avvicinó a quell’Andrea di soppiatto, senza rumore, a quell’Andrea che gli aveva rubato il posto di lavoro vicino casa.

Una poesia infinita

Un uomo sembra stia scappando da qualcosa. Mesi prima di questa corsa infinita accaddero delle cose che sconvolsero la sua vita: il suo grande amore era finalmente arrivato alla sua fermata e insieme erano partiti per un viaggio senza destinazione alcuna.
Tra ciò che aveva portato quella donna a seguirlo, c’era una delle presunte doti di quell’uomo; egli era in grado, con le sue parole sistemate in rima, di straziare il cuore delle persone per la tristezza e la malinconia che quell’attesa gli stava procurando.
Arrivato però l’atteso giorno in cui quella partenza si poté fare, qualcosa incatenò nella mente perversa di lui la capacità di rimare. Praticamente l’uomo aveva in se talmente tanto amore per quella donna divenuta così indispensabile ai suoi pensieri, che la dote di esprimere la tristezza di un’attesa, conclusa, lo rendeva inutile a qualsiasi gesto o dimostrazione delle sue emozioni.
Caparbio e deciso a non smettere di scrivere per la propria donna, scelse di iniziare a comporre qualcosa di felice, una poesia in grado di infondere nel lettore una profonda gioia di vivere, un senso di quiete verso le terribili giornate dell’umanità, una forza perenne di spinta vitale.
Qualcosa però frenò tutti i propositi: per arrivare al cuore di chi le sue emozioni non le ha vissute, l’uomo cominciò a studiare coloro che gli stavano intorno, per capire se c’era qualcosa di almeno paragonabile alle sensazioni provate in modo da rendere retoricamente la sua esperienza. La situazione si presentò orrenda; più guardava il mondo più si distaccava da esso, più osservava le anime spente davanti ai suoi occhi e più non trovava un modo, una figura almeno, in grado di riportare al lettore su un piano percettibile gli accadimenti.
Di fatto quella dote che tanto aveva stimato era un semplice prodotto della realtà che lo aveva formato, la malinconia incombe grave su ogni essere della società in cui quell’uomo era cresciuto; nessuna capacità per cui essere lodato, solo compassione tra uomini tristi e soli.
Ma l’uomo sembra stia scappando, non senza motivo. La sua non è una fuga da tutto ciò che deprime la creatività di un’anima, ma una corsa alla ricerca di qualcosa. Difatti quel componimento iniziato nell’istante in cui la donna arrivò a quella fermata, era frutto di presuntuosa passione. Certo che le parole non gli sarebbero mancate, grafema dopo grafema la poesia si destreggiava tra le carte che l’uomo prese in mano. Ma questo nuovo obiettivo di intenzionata vivacità, sconvolse l’autore stesso: attimo dopo attimo la lirica descriveva la sua storia d’amore, istante dopo istante le figure da inventare cadevano a grappolo una dopo l’altra, verso dopo verso i modi per comunicare la sua emozione non avevano fine.
Quell’uomo ancora corre tra le pieghe della sua esistenza per raggiungere la sua poesia; scappatogli di mano il suo scritto non si è posto alcun freno ed ha preso di sua iniziativa l’intenzione di scrivere una storia d’amore, ma è noto quanto sia effimera la capacità di raccontare la felicità.

Storia di una lacrima

Non c’era giorno della sua vita, in cui Alfredo non ricordasse, almeno una volta ad almeno una persona sempre diversa, che in tutta la sua esistenza lui non aveva mai versato nemmeno una singola lacrima.
Questo suo vanto in realtà, non poche volte, gli aveva procurato dei fastidi con i parenti e gli amici a lui più cari; difatti suo padre morì per mano dello stesso assassino che pochi mesi prima era entrato in casa di Gianni, uno della sua compagnia, e non trovandolo gli aveva ucciso la moglie per sfizio. Ciò che creò parecchi subbugli fu la reazione di Alfredo: non versò alcuna lacrima, sebbene fosse un fatto strano tutti erano abituati alla sua resistenza psicologica, e non ebbe alcun moto di rabbia; il suo corpo nel sapere quella notizia orrenda e quelle sfortunate coincidenze non si mosse per nulla. Restò impassibile agli eventi che uno dopo l’altro distruggevano la sua vita.
I motivi che lo avevano portato a tutto ciò stavano in un nome: Luisa era la donna che da alcuni mesi era prepotentemente entrata nel cuore di Alfredo. Lei era l’opposto di ciò che lui dava a vedere. Un giorno d’estate tra le persone che ascoltavano la storia di quest’uomo senza lacrime, c’era questa donna affascinante che ne rimase talmente colpita che quella stessa sera chiese a lui di sposarla. Il tutto avvenne in poche settimane concitate e il risultato fu che una donna di nome Luisa, che non voleva più alcuna tristezza nella sua vita, sposò quell’uomo di nome Alfredo che nella sua esistenza non riusciva a provare alcuna malinconia.
L’omicidio della moglie di Gianni capitò poco prima del matrimonio e perciò la festa fu velata da quella macabra notizia; già da allora Alfredo iniziò ad allontanarsi dallo storico gruppo di amici perché la sua dedizione al rapporto con Luisa divenne totale dal primo giorno. Quando le vite tornarono al ritmo abituale, successe l’altro delitto. Il destino giocò un brutto scherzo agli sposi novelli perché da quel giorno il motivo per cui Luisa ed Alfredo erano diventati complici, venne a coincidere con la ragione per cui quell’uomo senza lacrime non aveva più persone al suo fianco se non sua moglie.
Scapparono lontano da tutto quello che era successo. In una nuova città, in un nuovo posto, con nuovi vicini e nuove persone intorno, quell’uomo poté tornare a raccontare ogni giorno la sua storia; ogni giorno Alfredo ricordava a Luisa il motivo per cui lei si era così tanto innamorata, raccontando a tutti che nonostante quello che accade nella sua vita, lui non aveva ancora pianto. In questa nuova situazione la coppia era riuscita a creare dei legami veramente stretti e profondi con le persone a loro vicine: la confidenza e l’amicizia negli anni erano diventate compagne di vita e prerogative di quei rapporti tra compaesani.
Ma arrivò anche lì. Quell’assassino che casualmente aveva creato tutti i problemi di Alfredo sembrava ce l’avesse proprio con lui: venne ad uccidere Luisa. Il colpo fu tremendo, la donna venne prima violentata e poi fatta a pezzi per essere gettata in un bosco nei dintorni. Restava da vedere la reazione di quel povero marito perseguitato dalle tragedie; le prime parole di conforto che arrivano da quei nuovi amici di famiglia però erano come ironiche. Alfredo negli anni era stato talmente capace nel raccontare la sua dote, che coloro che lo avevano ascoltato erano certi della sua forza d’animo e della sua capacità di non lasciarsi abbattere dalle situazioni avverse, quindi tutti confidavano in lui e vedevano in quel suo vanto la via d’uscita da quel vortice d’ingiustizie in cui era caduto.
Nessuno in realtà aveva mai capito quell’uomo senza lacrime: se fino all’uccisione in casa Gianni un pianto non c’era mai stato, ciò era conseguenza di una vita priva di drammi importanti. In occasione di quel primo omicidio la mente di Alfredo era occupata dall’idea di un matrimonio vinto quasi per caso, per una voce che a lui piaceva spargere per sentirsi un uomo virile, e perciò non riusciva a stare male in quel momento. Invece nei mesi in cui morì suo padre la testa di quell’uomo che non aveva mai pianto, subì un trauma fatale: la rabbia e la tristezza dovettero essere tenute a bada fino ad essere spente; Luisa che era il suo futuro aveva bisogno in quei momenti della certezza di aver sposato un uomo talmente forte da non versare lacrime neanche allora. Alfredo lo fece per Luisa, riuscì a resistere ma da lì, da quel luogo di ricordi, doveva scappare.
Ed ora dopo tutto quello che gli è capitato si trova in quella camera da letto che non sarà più vissuta da due persone, lui ora vuole piangere, quell’uomo ora vuole versare le sue prime lacrime per la donna che ha amato lungo tutta una vita. Ma non gli riesce. Alfredo non conosce il modo. Lui non sa più come piangere.
Corre alla ricerca di quell’assassino, di quell’uomo che gli ha rovinato la vita e che non gli permette di onorare la tomba di sua moglie con delle vere lacrime di dolore, perché aveva sofferto troppo la morte del padre, ma allora non gli era permesso essere triste e lui se ne dimenticò della sofferenza. Ma adesso Alfredo a differenza di tutti quegli inutili poliziotti avrebbe trovato l’uccisore della sua esistenza e lo avrebbe almeno guardato finché in lui non fosse comparsa un’ombra di rimorso.
Una notte d’estate dopo alcuni mesi di ricerche, quell’uomo senza lacrime si mise a sedere sul bordo del letto e in piedi davanti a se c’era un uomo che di certo era l’assassino. -Perché l’hai fatto?- chiese Alfredo. -Non sono mai riuscito a piangere- era basito -intendo dire che in tutta la mia esistenza non ho mai versato nemmeno una singola lacrima-. Alfredo era sempre più stupefatto, non poteva credere che quell’uomo che tanto odiava fosse così simile a lui; -e perché ora stai iniziando a piangere?- gli domandò vedendo una lacrima sul volto di quell’uomo in piedi davanti a lui. La risposta non tardò ad arrivare: -io per tutta la vita ho desiderato piangere senza mai riuscirci e tu di questo te ne sei fatto un vanto senza in realtà aver mai voluto soffrire e sfogarti con delle lacrime. Dovevo farti provare il mio dolore, dovevi soffrire così per arrivare come me a voler piangere senza saperlo fare-. Alfredo stava per scoppiare -mi vuoi spiegare allora perché tu ora stai piangendo?-.
-So che sto per morire-. Ad Alfredo scese una lacrima.
Non c’era giorno della sua vita, in cui Alfredo non ricordasse, almeno una volta ad almeno una persona sempre diversa, che in tutta la sua esistenza lui non aveva mai versato nemmeno una singola lacrima; tranne l’attimo prima di suicidarsi.

Storia di un Generale

Il panorama da quel punto non era mai stato così bello, ci era andato dalla sua più tenera età sulla cima di quella collina e mai aveva guardato in giù con tutto quello stupore che gli riempiva l’anima.
-Miei valorosi uomini. Miei pari. Insieme a me siete cresciuti tra queste valli incantate e insieme a me avete portato il nostro Paese ad essere ciò che è: il più temuto focolaio della resistenza, il più maestoso simbolo dell’indipendenza degli uomini, la bandiera della libertà di tutti gli individui. Ora vi devo chiedere l’ultima fatica. Come voi io per primo voglio far ritorno alle mura della mia casa, incontrare la mia donna e riabbracciare i figli che non ho visto crescere. Ma l’odiata democrazia vuole rovinare tutto ciò che noi abbiamo costruito col sudore delle nostre fronti. Nessuno di noi ha mai portato una cravatta, le nostre mani sono sempre state sudice e rovinate dal lavoro. Eppure vogliono toglierci tutto questo sotto il nome della legalità.
Noi siamo la nostra giustizia, noi con le nostre teste combattiamo per la nostra libertà. Mai nessuno miei uomini ha avuto tale ardore: venire a combatterci ai piedi dei nostri monti. Guardate cosa dovete proteggere dietro di voi, volgete lo sguardo alle vostre famiglie, tenete lontani i nemici dai prati dove i vostri figli potranno crescere. Avete paura miei coraggiosi amici? Di cosa? Del vostro ardore che sconfigge ogni altro uomo? Del coraggio di cui nessuno vi è pari? Della spietata virtù con la quale opprimete tutti gli stolti che osano combattervi? Non temete per chi vi affronta, avranno un loro Dio per cui stanno già pregando. Le storie che giungono dalle nostre terre incutono ogni genere di paura nelle loro anime, sono già ora convinti di salutare questo Mondo. E noi? Vi chiederete quale destino ci aspetta, altri sono morti e altri moriranno. Qui noi facciamo la nostra storia: quella di una Nazione che è riuscita a tenere lontana ogni tirannia straniera, niente ha mai contaminato né i nostri pensieri né i luoghi in cui viviamo. Ed ora la Terra che vi ha generato vi chiede implorando un’impresa.
Combattete al mio fianco. Vedo i vostri occhi. Oltre a queste parole esisteranno solo le nostre gesta.-
Quanto avrebbe desiderato parlare ai propri soldati in quel modo, se fossero stati in grado di comprendere le formule delle antiche battaglie i loro cuori si sarebbero infervorati al suono di quel discorso, di quella melodia immaginata in una notte densa di emozioni. Lo sapeva che era il prezzo da pagare, l’ignoranza dei molti purtroppo era la pena di quella bandiera per cui aveva dato la vita, e l’indomani non sarebbe neanche più stato un modo di dire, l’indomani sarebbe morto.
Molti generali prima di lui avrebbero dato tutto pur di guidare quella battaglia, era certamente l’ultima che quell’esercito avrebbe affrontato, lo sapeva benissimo, le possibilità erano nulle. Da mesi studiava il modo per portarsi dietro il più alto numero possibile di nemici, oggettivamente era un ottimo generale, conosceva a memoria le tattiche migliori di tutta la storia militare, aveva saputo unire la genialità degli antichi alla tecnica moderna; ma proprio per la sua istruzione aveva trovato la falla del sistema.
Nella storia delle grandi battaglie esistevano condizioni di inferiorità, esiti ribaltati all’ultimo secondo, conclusioni inaspettate, vittorie dei deboli. Ma la sua nazione era riuscita a mettersi contro l’umanità intera, la quantità di avversari disposti era inimmaginabile per qualsiasi storico, non c’era modo oggettivamente di sconfiggere col cuore l’immensità. Non pensava minimamente che i suoi soldati non avessero le virtù per combattere in quelle condizioni, anzi di certo nessuno potrà dire di aver previsto il tempo per cui i suoi compagni resisteranno; per quello lui, il suo esercito, quella battaglia, comporranno il più avvincente degli annali, per aver scortato nell’oltretomba oltre mille quattrocento cinquanta due uomini a testa, tanto aveva già calcolato.
Ma il cancro stava nel meraviglioso Stato che era stato costruito per questi magistrali uomini, tutti sapevano che la loro Nazione era stata creata in un momento antico di crisi, e grazie all’unione delle persone in una unica grande cosa quel momento era stato superato, tenendo il legame sempre più saldo e sistemico, in modo che nulla potesse portarlo alla fine. Nel frattempo ciò che stava intorno si era evoluto, ma la loro Creazione per poter restare tale non apportava nessun cambiamento, il segreto era quello per resistere: tenere segreto il mondo esterno.
Uno solo era il modo di vincere quella impossibile guerra contro tutti: la forza unita alla spinta data dalla conoscenza, quel discorso era la chiave di volta che gli avrebbe permesso di vincere. In uno Stato in cui però gli uomini non avevano scelto la loro libertà ma se l’erano costruita partendo da un unico mattone, le sue parole non valevano lo stesso.
L’indomani sarebbe stato sconfitto, come i grandi generali antichi stava assaporando l’aria, per sentire quali passi gli avrebbe consigliato di solcare il vento, udire il sussurro della Natura che gli diceva con che tempo trarre ogni respiro.
Il panorama da quel punto non era mai stato così bello, ci era andato dalla sua più tenera età sulla cima di quella collina e mai aveva guardato in giù con tutto quello stupore che gli riempiva l’anima.
-Miei valorosi uomini. Miei pari. Attaccate insieme a me chi ci odia. Combattete a fianco della morte senza timore.-

Storia di un Malato

*Driiiin…
-Ancora lei?.-
-Certo, finché nessuno viene da me! –
-Solo un attimo di pazienza e vedrà che qualcuno si prenderà cura di lei. –
Quella era la seconda ora passata in quel modo: un corridoio mal illuminato che poteva trovarsi al primo come al settimo piano, a lui addirittura era sembrato interrato. Un malore interiore, senso d’ansia, quasi fosse un attacco di panico, tutto ciò lo aveva ripetuto al centodiciotto per telefono, agli operatori in ambulanza, all’infermiera in pronto soccorso e al medico di turno importunato dall’evento. Tutti lo avevano sentito, di certo nessuno lo ascoltava, tutti lo avevano trattato con i guanti, in modo che non ci fosse nulla da ridire, ma tutti alzavano lo sguardo poco prima di incrociare il suo come fosse un malato terminale, sicuramente per non compatire quell’ennesimo malato, perché uno di una lunga serie di pazienti che scorrono uno dopo l’altro.
Per lui però le cose non stavano proprio così, quella era la prima volta che viaggiava in ambulanza, la prima volta che si sdraiava su di un letto mobile, la prima volta che entrava in pronto soccorso prima degli altri e in gran stile: da quella porta laterale che non ha pulsanti d’apertura e che tutti guardano sempre con rispetto, mistero e timore.
Le infermiere lo appoggiarono a lato di un corridoio scarsamente frequentato, comunque in modo che non fosse d’intralcio, abbassarono la testa di quella pomposa struttura ed andarono via dicendogli:
-Così starà più comodo, ci aspetti qui. –
In quelle due ore si era ripetuto spessissimo in testa quanto considerasse fastidiosa quella frase, una di quelle odiose proposizioni di chi comanda in un luogo a dispetto di chi ne è un povero malcapitato; inutile era il tentativo di interpretare quelle parole dopo un tempo esageratamente infruttuoso d’attesa.
Ad ogni modo quando dopo un oretta aveva deciso che il torpore del suo corpo era divenuto insopportabile, si alzò a sedere ma in quello stesso istante le porte dalle quali era entrato si spalancarono come mosse dal vento, e scocciata un’infermiera gli aveva risistemato la testa sul cuscino accompagnando i suoi movimenti decisi con delle parole scandite alla lettera:
-Le avevo detto di aspettare qui. Non c’è alcun motivo di muoversi. –
-Credevo sarebbe arrivato qualcuno, ero persino tentato di suonare! –
Chiuse di nuovo le porte sembrò che le luci se ne andassero da quel corridoio insieme alla pazienza provata da quell’uomo; l’aria di quel luogo opprimeva il suo petto già scosso da quel malore.
A dire il vero il fatto di essere in ospedale lo aveva rassicurato molto, trovarsi dove quel suo piccolo peso sarebbe stato rimosso era una leggerezza inappagabile, ma dopo quell’attesa era come se fossero riemersi prepotenti dei timori infantili. Quelle mura lunghissime si distorcevano sempre di più, apparivano spezzate da un’onda d’acqua in continuo movimento, ogni volta che stropicciava gli occhi, le luci si spegnevano e si riaccendevano fredde e brillanti, un vento inesistente si stendeva sugli infiniti corrimano in plastica, irraggiungibili dal corpo rinchiuso in quella gabbia di ferri e lenzuola che lo avvolgevano in catene invisibili lanciate da quelle parole odiate.
-… ci aspetti qui… –
gli avevano detto. Interminabile il senso d’angoscia che riempiva quel corridoio isolato, quella sensazione si avvicinava a quella provata un attimo prima di chiamare l’ambulanza, si si se lo sentiva, il malessere doveva essere quello, era il momento giusto per suonare quel dannato campanello che era l’unica cosa a collegarlo al
*Driiiin…
-Ancora lei?.-
-Certo, finché nessuno viene da me! –
-Solo un attimo di pazienza e vedrà che qualcuno si prenderà cura di lei. –
Non poteva succedere di nuovo, non doveva essere scaricato lì con delle decise parole di incertezza, lui non era un uomo vago! Anzi il suo era un definito e ben precisato malessere da qualche parte nel petto.
Però quell’arrivo repentino lo aveva tranquillizzato, addirittura gli era sembrato di essere in osservazione permanente, erano solo inutili fobie le sue, non aveva motivo di temere nell’edificio dove in realtà le vite si salvano, probabilmente ogni secondo c’era una persona che dietro un monitor osservava le immagini inviate dalla telecamera che con quasi assoluta certezza era posizionata in un punto indefinito del corridoio. Qualcuno lo stava guardando, era in compagnia, dei medici stavano finendo i loro lavori più urgenti e sarebbero arrivati per dirgli che aveva questo o quel problema e che in lo avrebbero curato in pochi giorni, avrebbe avuto altre persone in stanza con lui, nuove conoscenze, alcune chiacchiere di circostanza, date da quella strana amicizia e complicità che nasce tra individui che vivono un’esperienza simile, qualsiasi essa sia.
-Ora del decesso 20.02. Due ore e trenta dopo l’arrivo. –
Come tutti gli altri, non resistono, si lasciano andare non appena credono di non essere più soli.

Storia di una morte

La poltrona era nel posto che le spettava, il candelabro finalmente aveva l’angolazione giusta rispetto a quel salotto immacolato in cui si ergeva, sulla parete perfettamente di fronte all’entrata, poggiato su quel vecchissimo mobile inglese centrato tra i due quadri di epoca romantica; tutti i suoi amici avevano sempre detto che rappresentavano lo “Sturm und Drang” in modo impeccabile, la tempesta e l’impeto.
Michele se ne stava in piedi sul suo tappeto francese, trafugato secondo la leggenda dagli appartamenti di Napoleone stesso, sontuoso, conferiva a quella stanza la calma necessaria a fare da contrappeso ai dipinti, troppo violenti per gli animi che ne apprezzavano il significato. I suoi occhi guardavano la macchia di sangue, non era riuscito ad evitare che il fiotto incontrollabile arrivasse a toccare quel prezioso manufatto a lui così caro. Da qualche minuto il corpo disteso davanti al comò non emetteva più alcun gemito, agonizzante aveva tentato di muoversi per una buona mezz’ora ma le corde non gli permettevano di insozzare ulteriormente la severità del luogo.
La vita di Michele era stata una facile scalata alla ricchezza: morti i genitori era riuscito ad investire, per mano del padrino, un’ingente quantità di denaro in due-tre progetti che si rivelarono presto molto più che fruttuosi. Terminati gli studi ed arrivato ad un grado di conoscenza mirabile della storia, della letteratura e degli usi e costumi di tutta l’età moderna, si era dedicato ai più disparati modi di imitazione della vecchia classe nobiliare; in pochi anni aveva riportato alla luce lo strato sociale rappresentante l’apparenza: i circoli culturali, la mondanità, il prestigio, l’agiatezza, il mecenatismo, la signorilità, il culto della bellezza, erano queste le prerogative delle sue giornate, con pregi e difetti annessi, con gesta lodevoli e scabrose implicate.
Quella mattina era arrivato a casa sua un possibile nuovo elemento da inserire nella sua cerchia di compagni, era uno stilista divenuto famoso per la sua innovativa idea di restaurare il fasto della moda ottocentesca, ed era per questo in linea con il pensiero di Michele. Si erano accomodati sulle poltrone del salotto e bevuto il rituale calice, avevano dibattuto a lungo sull’importanza del piacere, sulla necessità di un contesto formalmente adeguato per soddisfarne ogni aspetto, dall’appagamento mentale favorito solo da un corpus nutrito di conoscenze, alla soddisfazione del corpo solo in occasione della completa libertà sessuale, sia essa violenta ed esperta o delicatamente illibata.
Ad un certo momento l’ospitato, preso dalla foga espressiva, aveva battuto sul mobile inglese, spostando leggermente quel candelabro decorosamente disposto alla sua sommità, e tornando a sedere aveva mosso la poltrona in modo che fosse dirimpetto a quella del signore di casa, come se la posizione laterale in cui si trovava esprimesse troppa inferiorità.
Allora Michele, con la scusa che tutto ciò che stavano per fare era legato all’iniziazione dello stilista nel circolo, si fece portare delle funi ed una sedia, dove fece sedere il nuovo adepto prima di cominciare lui stesso a legarlo. Mentre passava sui polsi, notò come il battito dell’uomo stesse aumentando, forse ancora non era paura, ma di certo trasudava agitazione da ogni parte; il nervosismo per la situazione in cui si trovava era percettibile a prima vista: muoveva in continuazione le mani appena fissate alle braccia della sedia, come se volesse riattivarne la circolazione. Una volta immobilizzato il corpo gli si fermò davanti, indeciso su cosa farne della testa: se lo avesse imbavagliato non ci sarebbero state grida, quindi propense per lasciargli la libertà di urlare, cosa di cui Michele si sarebbe poi pentito amaramente.
L’uomo seduto sembrava ansioso di terminare al più presto quello che stava facendo, Michele invece era piuttosto calmo, anche se indeciso data l’inaspettata incombenza di un altro delitto. Per prendere tempo gli tagliò le dita all’altezza delle nocche; non era stata una cosa semplice dato che di certo la vittima non lo aveva per niente aiutato, ma tra le urla di dolore e gli istanti di attesa per poter trapassare le piccole ossa, riuscì a fare un lavoro di un certo livello. La prima parte era morbida, la pelle si apriva con una leggera pressione, ma la parte biancastra arrivava immediatamente, e allora era necessario bloccare l’arto con l’altra mano ed andare a fondo, mentre piccole parti di carne saltavano delicate tra i denti della lama.
Proprio nel gesto dell’andare avanti e indietro con il braccio, Michele tirò il coltello troppo in fuori e colpì con la punta affilata il braccio della sedia, in un punto impreciso dove c’erano le funi, trapassandole ed incidendo il legno; così l’idea gli fu in testa, senza indugiare appoggiò sul collo del presto deceduto le labbra, in modo da sentire dove fosse precisamente il punto con la portata massima di sangue, ad un’altro urlo seppe che tutta quella pressione avrebbe aumentato la gittata ma oramai il momento era propizio e infilò l’intera lama dove poco prima aveva indugiato la sua bocca.

Storia di una fermata

Una grigia strada di periferia, con le strisce che non venivano ripassate da anni, di un bianco sporcato irrimediabilmente dal passaggio di uomini di ogni tipo. Questo vedeva ogni giorno il signor Giacomo, che nell’attesa si era dimenticato perfino la sua età; anzi lui non voleva proprio più avere a che fare col tempo, perché con la scusa che il suo passare è relativo, qualcuno lo aveva ingannato.
La storia di Giacomo però è particolare, infatti lui per aver tentato di aiutare la razza umana ad evadere da uno dei castighi della Natura, era stato punito con un incantamento che in principio non era sembrato così inquietante. Prima di trovarsi lì, seduto su quella diroccata fermata dell’autobus, a lato di quella grigia strada di periferia, Giacomo era uno spirito bellissimo, libero e potente vigile del comportamento degli umani. Ma un giorno, per aiutare un amore nato davanti ai suoi occhi, donò la sua immortalità ai due ragazzi che gli avevano colpito il cuore, dandosi così la morte ed infrangendo le leggi che Natura aveva imposto sull’insignificante mondo vivente.
La punizione arrivò quando quando quella ragazza non permise il coronamento di quel giovane amore: egli doveva restare in quella fermata ad aspettare che un uomo fosse disposto a prendere il suo ruolo, quello di traghettatore delle anime in pena; fino a quel giorno non sarebbe potuto morire, fino a quel giorno avrebbe atteso un uomo che avrebbe portato con se la morte. Qualcuno poteva vedere in quella condanna il dono della vita eterna, ma Giacomo, che aveva vissuto ed aveva vegliato sulla società che ora doveva generare colui che lo avrebbe liberato, era triste e rassegnato per la sorte che gli toccava.
Quella grigia strada di periferia è un luogo dove tutti noi siamo passati almeno una volta nella nostra vita, o sicuramente attraverso il quale prima o poi andremo; quella diroccata fermata dell’autobus è il luogo dove tutte le anime in pena devono trovarsi prima di poter sciogliere i loro dubbi e prendere le loro decisioni. Nessuno capirà mai come ci è arrivato, molti nemmeno si ricorderanno che hanno mosso i loro passi su quelle strisce sbiadite dal tempo, ma resta l’evento, il fatto che quando siamo più assorti che mai nei nostri effimeri dilemmi, nelle situazioni senza alcuna via d’uscita, la Natura ci porta a sederci su quella panchina fatta di insignificanti problemi dell’uomo.
Da quel giorni di molti anni fa però, Giacomo è il compagno delle attese, è quell’essere che venne costretto ad essere partecipe dello stallo. Ogni volta che un autobus passa di lì, un passeggero scende e racconta la sua storia, lo spirito ascolta e pone la sua domanda:
-Prenderai il prossimo? Andrai via da questo luogo verso un’attesa eterna o cambierai fermata per incontrare la tua vita e risolverla di tuo pugno?-
decisi e caparbi tutti gli uomini si sono sempre incamminati con coraggio verso il proprio destino, nulla in sospeso è mai stato lasciato. Giacomo sapeva la propria condanna, nessuno avrebbe mai voluto prendere il suo posto, l’ignoto era la paura che sconfiggeva ogni giorno la sua possibilità di lasciare quel luogo di incertezza e desolazione; sotto le sembianze del coraggio, la viltà si impossessava degli occhi dell’uomo e lo rimandava verso la sua vita già scritta e conosciuta.
Una grigia strada di periferia, con le strisce che non venivano ripassate da anni, di un bianco sporcato irrimediabilmente dal passaggio di uomini di ogni tipo. Questa fu l’ultima cosa che vide il signor Giacomo prima che un ragazzo seduto al suo fianco gli rispondesse in questo modo alla sua solita domanda:
-Questa è la scelta che devo fare? Decidere se tornare a risolvere la mia vita o andare incontro all’attesa perenne alla quale le mie azioni hanno portato? Resto qui, non ho la forza di rifiutare ciò che sto aspettando, già mi fu donata la vita eterna da uno spirito buono che vide l’amore nei miei occhi. Se tornassi indietro la donna che amo mi lascerebbe libero di rivolgere i miei occhi verso un’altra, dato che lei con me non può partire; ma se questo è il luogo dell’attesa, bé io né mi incamminerò da un’altra parte, né prenderò un autobus che mi porterebbe alla vita eterna. Aspetterò qui in questo luogo desolato, nella speranza che la mia donna venga comunque a salvare la mia anima in pena, se così non sarà, allora darò sollievo agli altri uomini e li spedirò indietro a risolvere le loro vite come non ho fatto io con la mia.-
Giacomo morì in quell’istante, ma io seppi tutto questo perché quando scesi dall’autobus, vidi un ragazzo e una ragazza salirvi, lasciando scritta la loro storia a monito per chiunque consideri vile l’ignoto. Avrei voluto anche io salire sul successivo, ma non ne ebbi il coraggio, con la scusa che mi facevano pena gli uomini tornai a narrare la storia di quella fermata.

Una notte in albergo

La pelle era attaccata a quel viscido lenzuolo, d’altronde come poteva non esserlo in una mattina d’estate così calda. Andrea e Leonardo erano lì dalle otto e mezza, ormai avevano appena finito di farlo per la terza volta e quel caldo sudore di sesso era diventato un viscido liquido che rendeva il luogo del misfatto e i colpevoli una cosa sola.
Leonardo era partito di buon’ora come tutti i giorni, ma era passato davanti al suo ufficio con uno sguardo fiero e soddisfatto per la riuscita del suo piano; non era nemmeno stato così difficile scambiare il suo turno con quello di Gianni, ed ora il suo amico lavorava al computer con cinquanta euro in più nel portafogli, e lui correva verso quell’indirizzo scritto sul pezzo di carta che aveva messo appositamente sopra il cruscotto, con cinquanta euro in meno in tasca.
Andrea invece era agitata come mai prima d’ora, cioè aveva già tradito prima, ma aveva addosso una strana emozione che non riusciva ad identificare; certamente nella sua testa correvano pensieri che Leonardo mai si sarebbe sognato di avere, ma essendo una donna non riusciva a togliersi dalla mente l’etica che doveva trovare in quel gesto, e forse proprio questo scervellarsi la rendeva così irrequieta.
Come programmato, mentre l’uno entrava a comprare il pane, l’altra entrava nella macchina lasciata aperta e rientrando Leonardo si stampò un gigantesco sorriso in faccia, uno di quelli ebeti da innamorati.
Ecco che ancora la sua tensione saliva, come poteva avere quello sguardo così complice se il loro rapporto era al primo appuntamento? Andrea era attanagliata dai dubbi; si erano parlati a lungo prima di decidere che il tradimento sarebbe stato consacrato e reso eterno con quell’incontro, ma proprio perché non si era presentata l’opportunità di parlare da soli per un tempo dignitoso era stata fatta quella scelta, ed ora lui le sorrideva in quel modo.
-Sai, te l’ho già detto ma questa è la prima volta che mi succede una cosa del genere, sono contento che sia tu il mio tradimento.-
Ci aveva pensato moltissimo e finalmente il silenzio era stato rotto da lui con una bella frase ad effetto, un complimento piazzato nel modo giusto. Davanti a loro una prateria di tempo, qualcosa dovevano pur dirsi, perché non dimostrare subito che lui era certo della decisione presa e voleva andare fino in fondo; lei lo aveva fatto così tante volte, questa era solo l’ennesima scappatella di una noiosa vita di coppia, probabilmente non vedeva l’ora che tutto finisse. Quindi lui doveva mostrarsi caparbio, se l’era detto un migliaio di volte, non doveva trasudare esitazioni di alcun genere, nessun tentennamento di fronte ad una giornata intera da passare insieme.
Arrivarono poco prima dell’ora di pranzo nella stanza di quel motel in stile americano, disperso tra le campagne, lontani dagli occhi indiscreti che mai avrebbero capito la voglia di Andrea e Leonardo di essere lì, trovarsi insieme contro la quotidianità e dare vivacità alle loro spente giornate. Chiamarono entrambi i rispettivi amati, confermarono la giornata al mare per l’aperitivo col migliore amico, con notte a seguito fuori di casa, tutto a posto, nessuna domanda inopportuna, tutti si fidavano di loro. Chiusero entrambi i telefoni dopo il ti amo più bello che riuscirono a dire.
Non resisteva più, come nei più intimi desideri, i denti si aggrapparono sull’orlo in pizzo delle mutande più provocanti dell’armadio di Andrea, volarono come il resto dei vestiti in un angolo della stanza, insieme alle loro inermi coscienze gettate ad imputridire con i deboli muri di cartongesso. Non lo fecero, sapevano ogni mossa che l’altro aveva intenzione di fare, era l’unico argomento delle loro discussioni: la voglia, l’intenzione di soddisfare il lato recondito della cattiveria umana, quello dove si nasconde l’amore morboso, fatto di sensi, carne.
I loro corpi arrivarono ad estremi dai quali non si torna indietro, riuscirono a non immergersi uno dentro l’altra fino a notte inoltrata, trovando ogni minuto, ogni ora che passava, un nuovo lembo di pelle da soddisfare prima che il cervello chieda il giusto prezzo per quella sofferenza. Si addormentarono stanchi dopo che non ci fu più niente da guardare che non fosse stato già scoperto, i loro occhi non avevano più motivi di tornare alla luce della loro disfatta.
Fu lui a svegliarsi per primo, Leonardo era la felicità personificata, se non fosse stato per la sua vita, avrebbe potuto amare quella donna con la quale esauriva il suo rapporto col sesso femminile; addirittura ancora non l’avevano fatto, questo significava altri incontri, altre giornate dedicate all’appagamento dei sensi. Nemmeno nei film più utopici aveva vissuto una tale complicità. Tutto doveva finire in quel modo, senza pegni di cuore, con un segreto da mantenere, con la soddisfazione ancora in circolo.
Andrea sapeva cosa sarebbe successo, si era svegliata di notte ed era riuscita a razionalizzare tutto: Leonardo era un uomo fantastico per quell’occasione, era fatto per essere quella nicchia nella sua testa che voleva solo il sesso come evasione totale dalla vita. La mattina dopo avrebbe di certo esordito con quelle sue morbide labbra sul suo corpo, per risvegliare in lei quelle passioni che solo lui aveva saputo scovare, per essere in breve lui e lei una cosa sola, in modo da suggellare nell’odore delle loro nudità tutti i dubbi che Andrea si era lecitamente posta. Chiudere tutto nel sesso, come nessun uomo sapeva fare, non permettere che le convenzioni intaccassero anche quel suo ennesimo tentativo di trovare un uomo che sappia amare la parte di lei più profonda: quella ricerca di piacere tutta del Terzo millennio.
La pelle era attaccata a quel viscido lenzuolo, d’altronde come poteva non esserlo in una mattina d’estate così calda. Andrea e Leonardo erano lì dalle otto e mezza, ormai avevano appena finito di farlo per la terza volta e quel caldo sudore di sesso era diventato un viscido liquido che rendeva il luogo del misfatto e i colpevoli una cosa sola.
Non c’era stato altro modo, lo aveva dovuto legare, non ne poteva più. Stufa di quegli amanti deboli, stanca del vile atteggiamento di chiunque lei amasse, era andata verso l’unica soluzione possibile. Come poteva averle addirittura detto che se avessero continuato così un giorno sarebbero potuti scappare insieme? A lui bastava solo quel giorno di semplice distaccamento dalla propria coscienza per innamorarsi della vita? Come, se lei aveva passato una vita intera a lasciare imputridire i suoi sensi di colpa per vedere se finalmente un giorno sarebbe riuscita a fare a meno dell’amore? Nemmeno lui, nemmeno Leonardo era in grado di amare fino in fondo il suo corpo, se stesso, la creatura perfetta di Dio; altrimenti avrebbe voluto farlo, avrebbe capito che il vero amore verso l’uomo doveva passare attraverso il sesso, non come dicevano tutti attraverso la capacità di dire no al piacere.
Andrea lo aveva capito, quello era il giusto modo di amare; lasciarsi andare, lasciare ciò che siamo all’istinto, non alla razionalità umana. Leonardo sembrava quello giusto, in grado di poterla amare, ma anche lui era finito legato su quel sudicio letto.

Storia di una Foglia

Quel clima invernale non faceva altro che ricordare a Massimiliano il suo passato, gli riportava una ad una le immagini che il 10 Settembre 1972 si presentarono ai suoi occhi.
Come da quarantacinque anni a questa parte se ne stava seduto sulla solita panchina, a guardare gli alberi che stavano fiorendo a Marzo; le foglie stentavano a crescere ma alcune piante avevano già dato alla luce il frutto della loro vita, convinte che la primavera come ogni anno avrebbe assecondato la loro spinta vitale. Ma la Natura ancora una volta scherzava contro le sue creature: una nuova ondata di gelo dava del filo da torcere alla crescita di ogni cosa.
Nel petto di quel vecchio però nulla cresceva più. Aveva sofferto troppo perché il germoglio che aveva dentro potesse resistere a quell’attacco.
Il 10 Settembre 1972 una donna era morta tra le mura di casa sua; senza motivi apparenti il suo cuore aveva cessato di battere in tenera età e nell’altro mondo si era fatta accompagnare dall’anima di Massimiliano. Come per gli alberi più deboli che tentennanti decidono di mostrare al mondo i loro fiori, il marito di quella donna aveva nel dubbio deciso di intraprendere un’avventura; con poca fermezza all’altare aveva concesso il resto dei suoi giorni ad una donna che lo accudiva come nessun’altra.
In realtà Massimiliano era molto più deciso di quanto gli agli altri potesse sembrare; non è che si era sposato da stolto, senza sapere a cosa andasse incontro, semplicemente constatando che tutto nella sua vita era pronto al matrimonio, ci si era buttato a capofitto. La donna che lo accompagnava addirittura era innamorata a tal punto di lui che aveva accettato uno ad uno tutti i suoi difetti, e senza rancori se li era portati appresso ogni giorno della loro vita di coppia; ma nulla da fare. Cadde senza preavviso in cucina, da sola, senza che nessuno sapesse niente fino al ritorno di Massimiliano da lavoro.
Ai coniugi ogni Domenica piaceva passeggiare lungo un viale alberato, gremito sempre di famiglie allegre e bambini carichi di gioia. I due se ne stavano la maggior parte del tempo a commentare le persone che si trovavano in quel posto, a loro piaceva giudicare il comportamento degli altri e confrontarsi col resto del mondo, associandosi o dissentendo al carattere di una o dell’altra coppia. Era un passatempo piuttosto consueto per loro dato che ancora non avevano una vera e propria identità; nonostante avessero oramai degli anni alle spalle, Massimiliano e la sua donna non si conoscevano molto, non erano mai riusciti ad aprirsi veramente uno con l’altra, ed erano consapevoli che per durare una vita insieme avrebbero dovuto risolvere in qualche modo quella loro solitudine personale.
Il clima che circondava quel vecchio seduto sulla panchina era freddo, invernale, sebbene fosse già Marzo e alcuni alberi avevano già i primi fiori sui rami più bassi.
Il 10 Settembre 1972 una donna incinta era morta nella cucina della propria casa, dove da alcuni anni viveva col proprio marito, un uomo di poche parole, che a detta degli amici aveva subito la moglie da quando si erano sposati; addirittura si diceva che lei lo avesse costretto ad intraprendere quel cammino nonostante il loro rapporto fosse a malapena decollato. Anche la decisione di avere un figlio era oggetto del dibattito in paese, i più arditi raccontavano anche che lei non avesse detto nulla al marito Massimiliano, e che era questo il motivo per cui il suo cuore non aveva più retto sotto il peso di una tale malefatta.
Una foglia in particolare davanti ai suoi occhi, era indecisa, probabilmente come lui quella sera di tanti anni prima: non sapeva se cadere o se restare aggrappata al suo ramo. Intorno le voci degli altri erano andate avanti solo per alcuni anni, poi presto la gente si era dimenticata anche di quella sua moglie stroncata al terzo mese. Ma lui no, doveva conviverci con l’immagine della sua donna distesa sul pavimento della cucina nella posa più docile che lui avesse mai potuto ricordare. In realtà nessuno sapeva veramente cosa era successo, nessuno era a conoscenza del fatto che la gravidanza di sua moglie fosse solo una voce che la coppia aveva messo in giro per vedere la reazione dei loro compaesani, per avere qualcos’altro di cui parlare dato che veramente nessuno dei due stava riuscendo ad aprirsi con l’altro. Non potevano mandare a monte un intero matrimonio unicamente per un po’ di quella solitudine che hanno dentro tutti. In fondo quello era il loro passatempo.
Massimiliano però non era riuscito a decidere, come quella foglia che stava davanti a lui non era stato capace di scegliere se seguire il suo ramo o lasciarsi andare. Il 10 Settembre 1972 infatti, la donna con cui era spostato, stanca della vita che non avrebbe mai funzionato, gli aveva chiesto un atto di fede: suicidarsi insieme per avere qualcosa in comune. Non era poi un’idea cattiva, o almeno a lavoro Massimiliano ci aveva pensato seriamente, così sarebbero entrambi riusciti ad uscire dalla banalità di tutte le coppie che vedevano in quel viale ogni domenica. Tornato da lavoro con un forse proteso all’accordo in testa, come il giorno del suo matrimonio, l’aveva però trovata lì, morta in cucina, senza che lo avesse aspettato.
Quel clima invernale non faceva altro che ricordare a Massimiliano il suo passato, gli riportava una ad una le immagini che il 10 Settembre 1972 si presentarono ai suoi occhi, come la foglia dell’albero che davanti a lui non decideva se cadere o meno, quarantacinque anni prima lui non aveva risposto in tempo alla Natura che mantiene il suo corso senza aspettare che un uomo possa decidere se seguirla o meno.

Storia di una Bambina

Questo è un sogno, la storia di questa bambina è solo un sogno che quella notte ha cambiato i meccanismi della mia mente, perché era un insieme di immagini che realmente giravano tra i miei pensieri, ma che si sono unite in un’idea creatasi dal nulla; un po’ come faccio quando racconto le vite che vedo intorno a me, solo che questa volta ho subito io stesso il fascino di ciò che la notte è riuscita ad inventare.
Come accade ad ognuno, senza sapere in che modo, mi trovai ai piedi di un letto, mentre accarezzavo dei piccoli piedini sotto le coperte. Ci misi qualche minuto per capire le parole che stavano uscendo dalla mia bocca, ma più o meno la storia che stavo raccontando suonava così:
“…un’altra notte ancora l’uomo prese il suo giubbotto, si sistemò il pigiama, ed uscì sul terrazzo della propria camera da letto. Seduto su quella poltroncina che aveva appositamente messo in quel luogo, si raggomitolò e col naso puntato verso il cielo sfidò con gli occhi la sua Luna…”.
Mentre narravo questi strani avvenimenti, cercavo di mettere a fuoco la bambina che avevo davanti, anche se sul cuscino la sua testa era lontana da me e non riuscivo a distinguere alcun lineamento.
“…faceva così ogni notte per un motivo ben preciso: aspettava che Lei si voltasse e rispondesse alle sue parole; esatto, quell’uomo voleva che la Luna si girasse verso la Terra e rivolgesse la sua tenera voce all’essere umano che La attendeva.
-Ma papà papà! Anche io mi chiamo Luna!-
-Certo piccola, se ascolti la fine della storia capirai il perché.-…”.
Così qualche dettaglio si era fatto più chiaro; stavo ai piedi del letto di quella che probabilmente era mia figlia, e credo proprio nell’atto di raccontarle la favola della buonanotte, che riguardava appunto quell’uomo strano, assorto nel fissare il cielo.
“…ma neanche quella notte la Luna si voltò. Nonostante questo, il giorno successivo quell’ uomo prese come sempre il suo giubbotto, ancora una volta si sistemò il pigiama, e di nuovo uscì sul terrazzo della propria camera da letto. -Buonanotte mia Luna- disse.
-Le racconti quella storia oggi?-
-Si mamma è sempre la stessa, ma zitta che voglio ascoltare come va a finire! Questa notte non mi addormento!-…”.
Il mio sogno stava diventando intricato come pochi; a quel punto si era seduta con me ai piedi del letto mia moglie. Non immaginate quanto io abbia desiderato voltarmi e riconoscere la donna della mia vita, ma la mente non aveva la minima intenzione di figurarsi le due persone che ascoltavano la storia di quell’uomo testardo.
“…allora ero arrivato al punto in cui la Luna aveva ascoltato le tre parole che la stavano chiamando: -Buonanotte mia Luna- era la frase magica necessaria a sbloccare la guardia delle stelle. Ma l’intento non era per niente facile; nessuno era mai riuscito ad avere talmente tante attenzione dalla Luna al punto che Lei si voltasse e mostrasse ad un unico essere umano quella sua faccia nascosta, quel suo lato d’ombra che mai aveva mostrato.
L’uomo era caparbio però, vuol dire ostinato, vuol dire che voleva talmente tanto la Luna che era disposto a fare di tutto, ma proprio di tutto pur di averla…”.
E a questo punto del sogno successe una cosa molto bella; la voce di mia moglie interruppe il mio racconto, dicendo ciò che mi ha permesso di capire il funzionamento dei miei ingranaggi, forse della mia vita intera. Il bello è anche che la bambina da quello che posso intuire, si era addormentata già a quel punto della storia; in poche parole mia figlia non era mai riuscita ad ascoltare la fine della sua favola preferita, ma nel sogno la mia storia continuava, o almeno sempre da quello che penso di aver capito, il racconto della buonanotte finiva in uno sguardo.
“…sarebbe persino stato pronto ad aspettare tutta la vita
-Non ti avrei mai fatto attendere così tanto! Sapevi che sarei finita tra le tue braccia.-
-Certo però ho dovuto darti la buonanotte per molto tempo mia Luna.-…”.
E allora vidi chi era; quanta felicità mi ha portato vedere il mio futuro con lei, la Luna e quell’uomo sono reali più di quanto si possa immaginare. Una di quelle storie eterne. Quell’insieme di immagini erano finite nella mia vita di oggi. Io ero e sono il mio sogno.

She Died, she died!

«She died, she died». Non poteva credere alla sconvolgente reazione che quest’affermazione provocava nella sua mente. Non poteva essere morta. Quell’attimo segnava una svolta. Quell’istante ha dato inizio ad una realtà fatta di illusioni, personaggi quasi fittizi ora si intersecano casualmente uno dopo l’altro con la sua vita. Lui è contrario a tutto ciò, non desidera che niente interferisca con ciò che è perché ama se stesso, ama il mondo che si è costruito addosso, ma lei è morta. Lei è diventata il suo mondo, fatto di persone ridicole, donne in carriera, uomini con la cravatta, poster pieni zeppi di magici disegni, ragazzi con orrendi copricapo che sparano, disegni che diventano realtà. Non poteva risultare credibile, «she died, she died», parole di un sogno malvagio; ma lei era lì. Lei dimostrava alle labbra di lui che non esisteva alcun incubo, l’amore non era più rivolto alla solitudine da cui si trovava sommerso; nel momento in cui lei moriva, lui viveva. «She died, she died», la sua morte era diventata la condizione necessaria perché lui potesse scoprire la leggerezza di un sentimento che superava l’odio verso ciò che lo circondava. Lei mantiene confuso il limite insignificante tra la realtà e il sogno. Ma è comparso, è un uomo con la bombetta, è un uomo che appartiene al mondo dell’incubo, ma non lo manifesta, non sempre. Appare un altro traghettatore di questi due mondi, la bombetta lo rende buffo, ma l’uomo urla «she died, she died».

Storia di un Cuore

Tempo addietro in una terra lontana dal mondo, dove la civiltà era arrivata da anni, c’era un uomo che non aveva più il suo cuore. Cioè materialmente dentro il suo petto era ancora presente il suo organo vitale, ma si era spento a causa di storie passate che oramai appartengono alla notte. A dire il vero spento non è la parola adatta, quel cuore che ancora possedeva, non era più rosso come quello di tutti, ma era diventato grigio, come se non avesse più voglia di battere, come se non esistesse più alcun motivo di continuare a pompare vita.
Questo uomo ridotto a passare le giornate senza sangue in giro, era riconducibile ad un mostro, ciò che faceva non aveva più gusto, ma nell’attesa di tornare a prendere colore, egli decideva ogni giorno di svegliarsi ancora. Incontrare il mondo per lui non era una gran bella cosa, perché qualsiasi persona pretendeva nell’istante in cui ci si rapportava, uno scambio di vita, un mescolarsi di battiti, mentre quell’uomo non aveva più nulla da dare a nessuno senza il suo cuore che tutti sapevano scarlatto.
Una notte particolare però, successe un fatto strano, che egli stesso non seppe spiegare.
Quel giorno si trovava nel mondo, in mezzo ad una civiltà persino più forte di quella in cui era solito aggirarsi, ma questo gli piaceva perché lo confortava guardare ciò che gli stava intorno, lo rendeva meno fragile vedere i cuori rossi delle altre persone. Infatti in quel passato che gli aveva rubato la notte, quell’uomo sapeva che nel suo petto c’era stato un cuore talmente ardente che non poteva minimamente essere paragonato alle sbiadite sfumature di oggi, perciò là dove la società era più opprimente e quindi a nessuno importava di un uomo che osservava la realtà circostante, lui se ne stava potente a guardare e a biasimare la sua stessa razza. Ma ciò che era stato e il percorso che lo aveva reso tale, è tutta un’altra storia.
In ogni caso quella notte una donna lo notò, mise la testa sul suo collo, e chiuse gli occhi distesa tra le sue braccia. Tutti questi gesti scossero il suo stato d’animo, infatti quel senso di protezione dovuto alla fragilità di lei, era estraneo alle sue emozioni da chissà quanto tempo, ma di certo era ancora in grado di far sentire sicura una donna, e lei si addormentò. Quello che accadde nelle ore successive fu molto confuso, lo stesso uomo capì cosa fosse successo solo anni dopo, l’unica cosa che resta tutt’ora di quei momenti concitati, è la dedica lasciata.
“Io di te non conosco nulla, ma vedendo i tuoi occhi sapevo che tra le tue mani mi sarei sentita adatta, giusta per un posto nel mondo, solo che sul tuo petto non ho potuto sentire alcun battito, il tuo corpo era così caldo e nel frattempo così spento. Ho visto che dentro di te non c’era altro che grigio e ho scelto di fari un regalo: ti dono un pezzo del mio cuore in modo che tu possa avere qualcosa di degno alla tua natura. Chiedo solo una cosa in cambio, che tu lo custodisca come se fosse tuo e che tu lo curi come se chi te lo avesse dato fosse la persona a te più cara al mondo.”
Non ci volle molto perché lui si svegliasse, aveva infatti dentro al suo corpo un qualcosa per cui non doveva esserci alcuno spazio. Mentre apriva gli occhi vide quella donna allontanarsi, e nello stesso tempo sentì un ultimo battito affievolirsi, era quel pezzo di cuore nuovo che si era fermato. Passarono altre notti senza che l’uomo capisse cosa fosse successo, e quando lei tornò sempre nello stesso posto dove lui ormai aveva deciso di aspettare, egli capì ogni cosa.
Il regalo che gli era stato fatto era un po’ subdolo, infatti funzionava unicamente quando lei gli si avvicinava, quel pezzo di cuore batteva con talmente tanto vigore e si colorava di infinito splendore, ogni volta che sentiva vicina la parte da cui era stato tolto, come se tentasse di ritornare nel petto in cui si era formato. Queste botte di vita erano un colpo quasi mortale per l’uomo, la potenza di quel nuovo rosso scarlatto rischiava di rompere in mille pezzi ogni parte della carne che aveva intorno, cosicché da quella notte quell’uomo imparò a custodire quel cuore non come se fosse suo, ma addirittura come se fosse l’unica cosa che gli permettesse di vivere realmente. Non ci volle molto perché quel nuovo organo diventasse parte del nuovo corpo in cui risiedeva, l’unica peculiarità di tutti questi eventi fu la ricerca obbligata di quella donna.
Ora che quel tempo non è più così lontano, ma in una terra che ancora è lontana dal mondo, quell’uomo ancora vaga con un cuore grigio, ma che ha fatto spazio ad un pezzo di cuore non suo; ogni giorno accarezza e cura l’organo di cui è custode, in modo che tutte le volte in cui spinge nel suo petto, il suo corpo possa resistere all’impatto. Questi battiti si perdono anch’essi nella notte, ma almeno le vene sono piene di nuovo di un sangue colmo di una vita non sua.

Storia di Tesoro

Questa è la storia della parola tesoro, o almeno di quella che una notte sognante mi ha raccontato una montagna.
Stavo percorrendo il sentiero che ero solito intraprendere le notti in cui non avevo una meta prefissata, e che per questo mi confortava, essendo la mia mente inesplorata e quel luogo invece conosciuto. Come il resto di quelle notti sognanti, i miei passi mi portavano ad una radura che conciliava la riflessione, dove molti dei miei ragionamenti hanno trovato una loro conclusione; proprio perché la meditazione interiore era la naturale conseguenza del mio arrivo presso il masso dove sempre sedevo, quella notte che, non ricordo i motivi, non lo feci, non ebbi alcuna questione da districare, anzi camminavo assorto in contemplazione di quelle bellezze che mai avevo notato prima d’allora.
Incisa su quella nuda roccia che era sempre stata coperta da me, c’era la parola Tesoro.
Curioso fu il modo in cui la vidi, cioè non mi accorsi immediatamente della scritta, ma dopo che i miei occhi furono passati più e più volte su quello stesso punto, come se quelle lettere fossero comparse nel tempo che io volgevo lo sguardo altrove. Ad ogni modo mi trovai chinato sulla pietra con le mani intente a levigare quel solco che mi sembrava così antico che era impossibile si fosse creato nel giro di quei pochi minuti, ed accadde sotto le mie dita un fatto che ora ricordo reale, nonostante quella fosse una notte sognante.
Non so ancora oggi come sia potuto succedere, ma la mia mano che si muoveva stava creando un alito di vento, o forse era quell’aria che la spingeva avanti, che sembrava levasse la polvere da quel masso, o forse era quella che scostandosi generava il vento, rivelando altre incisioni, o forse erano quelle che facendosi alzavano lo strato soprastante. Insomma mi ritrovai a leggere nella radura dove sempre mi perdevo nei meandri dei miei pensieri, una cosa non mia, che stava lì probabilmente da prima di me, e che proprio per questa ragione ricordo a memoria. Quella cosa che lessi,era una storia, per l’esattezza la storia di una parola narrata da se stessa, forse una leggenda della parola tesoro che ora vi riporto.
Tesoro. Questo sono io che mi scrivo, questo fui io che ho vissuto, questo sarò io che in questo stato vivo. Il mio tempo fu quello dell’Olimpo, io stesso fui un uomo che venne chiamato ad essere compagno degli Dei, ma scelsi di rinnegare il motivo per cui mi venne fatto questo dono, e così questa punizione è giusto che io paghi. Quando vissi da mortale, ero l’unico che aveva questo nome tra tutti gli uomini; poiché ero uno dei figli di Afrodite, alla nascita mi fu dato il dono di far ricordare ad ogni persona che mi avesse trovato, l’importanza e l’unicità che abbiamo come abitanti della Terra custodita da Zeus, e grazie alla mia bellezza e alla protezione di mia madre, coloro che potevano dire di aver trovato e conosciuto Tesoro, erano pochi e fortunati tra gli esseri mortali. Addirittura il luogo dove ero custodito era così colmo di ricchezze che gli uomini che lo trovavano, non ne parlavano a nessuno, e mi tenevano segreto fino al loro ultimo giorno di vita, perché non desideravano condividere con altri la felicità che gli sapevo ricordare. Per questa stolta avarizia delle sue creature, il Padre degli Dei mi rese immortale, perché io potessi continuare a fare ciò che gli uomini avrebbero dovuto fare tra di loro. Provai compassione per la vostra ingenua razza, e mi trasformai definitivamente in parola, in modo che di bocca in bocca sarei passato tra grandi amori e grandi amicizie per renderle importanti e uniche. Dannato sono per questa scelta, non fui compreso e fui pronunciato in casi che nulla avevano a che fare con il dono che io portavo, nessuno era più capace di trasmettere insieme a me ciò che era il mio significato, tutti mi abusavano credendo di trovare Tesoro ovunque, e persi la mia consistenza. Irato Zeus per ciò che avevo causato e pregato da mia madre perché trovasse salvezza per un Dio soggiogato dagli uomini, mi incise su questa pietra, lasciando che esistesse senza più valore alcuno il mio essere parola. Così i mortali furono puniti dimenticando il loro valore, se non nelle notti sognanti quando ancora qualcuno può trovarmi purché apprezzi ciò che gli è stato creato attorno e si dimentichi dell’importanza che si da’ da se. Così mortale ti prego, ricorda la storia di Tesoro che fu uomo, poi Dio e poi parola a causa dei vizi umani.
Mai ho dimenticato quella notte, mi auguro possiate trovare la vostra radura, perché quando la guarderete senza credervi padroni di un luogo che vi appartiene, sono certo troverete Tesoro.

Storia di una Modella

Lei era una ragazza bellissima, non vi era alcun dubbio, il posto perfetto per lei era una lunghissima passerella dove poter sfilare e sentirsi osservata da tutto quel mondo che la considerava degna di essere una modella.
Come però tutte le altre donne che facevano il suo stesso lavoro, in lei c’era una tristezza che appunto appartiene alle persone che nella vita per sopravvivere devono prima di tutto apparire, quindi mi sembrò una comune modella alla quale non valeva la pena dedicare una storia. Per confermare il mio pensiero allora decisi di provare a scoprire qual’era la sua malinconia, e capire in questo modo perché si dovesse rifugiare nell’estetica per sentirsi meno sola.
Prima di ogni altra considerazione, guardai la sua bellezza: lei era una di quelle donne moderne, slanciata quasi in ogni parte del corpo in modo che potesse guardare tutti dall’alto verso il basso, capelli corti in modo che gli uomini capissero subito il suo livello di emancipazione e ne fossero soggiogati, sguardo chiaramente obbligato alla felicità apparente, e labbra sottilissime pronte a mostrare che la sua mente si sentiva a disagio in quel mondo.
Ma non mi fermai a questa prima opinione perché una cosa non mi aveva convinto, infatti la sua bellezza sembrava incompiuta, cioè i suoi caratteri erano perfettamente aderenti ai canoni del desiderio, ma lo provocavano senza che lei si sentisse desiderata. Questo fatto mi stava intrigando come pochi altri e decisi di guardarla, di chiedere a chi le stava intorno cosa avesse di così particolare; la seconda intenzione mi diede risultati improponibili , sembrava nessuno capisse che c’era qualcosa che la rendeva diversa da tutte le altre modelle, ma la prima, la mia scelta di guardarla mi diede ragione di aver deciso di raccontare questa storia.
Da alcuni giorni la seguivo ovunque cercando di farle notare il mio interessamento proprio perché potesse capire che non la stavo osservando come tutti a causa della sua bellezza, ma la stavo guardando per il semplice gusto di leggere una persona. Nessuna reazione da parte sua, lei continuava ad essere una ragazza bellissima che nel mondo sa orientarsi, non si lascia scalfire, soffre e cerca riparo nella bellezza e nella felicità semplice; però accadde un fatto strano: mentre lei sorrideva nel contesto sociale in cui doveva sorridere, io la vidi sgretolarsi, mentre lei era triste nelle situazioni in cui doveva mostrare la sua malinconia, io la vidi cadere a pezzi, mentre lei era bella nel mondo, io la vidi quasi rovinata ma più forte che mai.
Non potevo resistere a tutto questo, lei vedeva che io raccoglievo i resti della sua pelle per guardarli e nessuna reazione mi era concessa, sapeva che io la notavo ma era indifferente a me, finché un giorno si lasciò seguire.
Quando un giorno, mentre ancora aspettavo di guardare cosa ci fosse nascosto sotto quella pelle che io vedevo sgretolarsi, lei mi guardò, sembrò darmi la soddisfazione di un’impresa riuscita, invece mi disse semplicemente di seguirla.
Entrai con lei in camera sua, il luogo dove si è più se stessi, più allo scoperto, deboli; mi sedetti in un angolo, accesi una sigaretta e la guardai. Caduta ogni cosa vidi che non era slanciata, i capelli erano lunghi, le labbra carnose, lo sguardo triste. Lei era una ragazza ancora più bella di quanto gli altri potessero mai immaginare, e quindi le chiesi perché non si mostrasse così, ancora più bella, a tutti.
Lei era una ragazza bellissima, non vi era alcun dubbio, il posto perfetto per lei era dovunque qualcuno la potesse guardare, la differenza stava solo nel fatto che il mondo la credeva bella, felice in apparenza, mentre io ancora più bella, triste a mostrarsi. Lei era adatta così, gli altri la costruivano e a lei piaceva essere vista nei modi che provocano felicità. Ma ancora non ho finito di guardarla sgretolarsi …